Los Angeles, aprile 2013. Il Figlio di Raphael viene trovato morto, dentro la sua automobile, davanti ai cancelli della grandiosa villa. E’ stato sgozzato. Quando arriva la polizia, però, non c’è nessun cadavere. Scomparso. Una finta morte per sottrarsi ai creditori? Oppure? La moglie non sembra essere troppo sconvolta da quanto è successo. Incomincia così, come se fosse un thriller, il romanzo “La strega nera di Teheran” della scrittrice ebrea iraniana che vive in America dal 1977. E c’è, sì, un filone thriller, con un investigatore a cui è stata affidata l’indagine perché è pure lui, come l’uomo assassinato, un ebreo iraniano, capace di comprendere meglio, dunque, una cultura e un ambiente così diversi da quelli americani. Così come c’è un filone di realismo magico che deve essere accettato così com’è, quasi che parti della vicenda fossero storie raccontate da una moderna Sheherazade- e sono tante le storie che si accavallano l’una sull’altra, e tanti i personaggi, anche se al centro c’è la famiglia Soleyman, da cui ha inizio tutto.
A Teheran, ai tempi dello Shah, i Soleyman erano una delle famiglie più ricche del paese. Il primogenito Raphael aveva una singolarità- emanava una luce dall’interno, era come incandescente. Come aveva fatto a legarsi alla donna che verrà sempre chiamata ‘la strega di Bushir’ o ‘la strega nera’? Ignorante e rozza, più vecchia di lui, brutta. Però lei lo aveva curato fino alla morte e dopo, quando la famiglia pensava di potersene sbarazzare, aveva annunciato di essere incinta: avrebbe dato un erede ai Soleyman. Ma se non aveva più l’età per concepire un figlio! Dove era andata a prendere quel bambino nato dopo tredici mesi di gravidanza che non avrà altro nome, neppure all’anagrafe, che Figlio di Raphael? Per difendere i diritti di questo figlio bastardo la strega di Bushir impiegherà tutti i suoi malefici, scatenando misteriose forze della natura per vendicarsi, prima contro coloro che erano andati ad abitare in quella che era stata la sua casa, poi contro Aaron, il fratello di Raphael, e infine contro la moglie e le figlie di Aaron.
Ma intanto è cambiato tutto in Iran, e la strega non se n’è accorta. Lo Shah è dovuto fuggire, è tornato l’Ayatollah Khomeini, i fondamentalisti barbuti imperversano, quelli che restano dei Soleyman (soltanto la moglie e una figlia di Aaron) riescono a comprare la via della fuga attraverso la Turchia. Pure il Figlio di Raphael, dopo aver tentato di salvarsi con la conversione all’islam, arriva a Los Angeles. E’ veramente un ‘figlio di puttana’ che merita la fine che fa, questo Figlio di Raphael. Possiamo concedergli l’attenuante delle sofferenze dovute al ridicolo di cui è sempre stato vittima e alla condizione di figlio non riconosciuto, ma di certo è un genio della truffa. Ed erano tanti quelli a cui aveva fatto del male e che lo odiavano. Nel confronto costante tra i due mondi, America ed Iran, è l’America a perdere. L’America, con tutte le sue straordinarie potenzialità, con il suo liberalismo, con il sistema economico basato sul credito, offre eccezionali possibilità a chi ha l’arte di raggirare le persone a suo vantaggio.
Los Angeles- Rodeo Drive L’aberoo, quella qualità su cui si insiste tanto, la rispettabilità su cui si basa la dignità dell’uomo in Iran, non esiste in America. Tutta la narrativa centrale del romanzo, con le difficoltà- o forse il rifiuto- degli ebrei iraniani non di integrarsi ma di assimilarsi con gli abitanti del posto, è molto bella. Così come è bello il personaggio di John Vain, l’esatto opposto del Figlio di Raphael, l’uomo che aiuta tutti gli iraniani immigrati, prestando e spendendo anche i soldi che non ha. E non esiste giustizia se John Vain finisce in prigione mentre il Figlio di Raphael si compra sempre la libertà. Di proseguire a truffare.
E’ un romanzo che conquista il lettore a poco a poco, “La strega nera di Teheran”. Può infastidire quando la narrativa mette alla prova la nostra credulità ma, nello stesso tempo, incuriosisce e affascina con il contrasto fra due culture e, nei tempi di continui flussi di migranti in cui viviamo, apre uno squarcio su una migrazione elitaria che tuttavia è (non lasciamoci fuorviare) altrettanto dolorosa, forse solo un poco meno problematica, di quella dei poveracci che sbarcano sulle nostre coste.