Giunta alla sua quarta fatica letteraria, Simona Lo Iacono è nella rosa dei dodici finalisti al Premio Strega con Le streghe di Lenzavacche, pubblicato da edizioni e/o. Il suo doppio mestiere (magistrato e scrittrice) è qui amalgamato con sapienza e messo al servizio di una storia dal sapore ancestrale e dai risvolti inaspettati. Qui la mia recensione al romanzo.
Cosa significa essere magistrato e autore in Italia, espressioni da rafforzare al femminile? Come coniuga entrambe le “missioni”?
Per me vuol dire fare della letteratura uno strumento “normativo” e della legge un modo “letterario” per interpretare la realtà, nel senso che la scrittura può esprimere esigenze di giustizia e la norma può essere come la letteratura, il cui scopo è andare oltre le apparenze, alla ricerca della verità. Coniugo in questo modo le mie due passioni: unendole e facendo sì che l’una possa rafforzare l’altra.
Nel suo libro è veicolato un messaggio molto forte: la letteratura è la chiave per interpretare il mondo. Qual è, a tal proposito, la sua educazione letteraria? A quali autori deve la sua formazione della coscienza di lettrice e di scrittrice?
Ho sempre letto moltissimo fin da piccola, romanzi, favole, saggi, racconti. Mi hanno formata Elsa Morante, Marguerite Yourcenar, Flaubert, Sciascia, Pasolini, Victor Hugo. Un percorso variegato e fatto di amori incendiari per la scrittura, per i poeti e per il loro modo di passare attraverso la realtà con uno sguardo diverso, sovversivo, incantato.
Le streghe di Lenzavacche ha una struttura originale – la storia è infatti articolata su più piani temporali – e narra di un bimbo ripudiato da una società bigotta a causa della sua disabilità ai tempi dell’avvento del fascismo. Come è nata l’idea di questa storia?
E’ nata dalla scoperta accidentale di un regio decreto del 1925 che consentiva ai disabili l’accesso in “classi differenziate” in pieno regime fascista. Ho studiato la legge e ho verificato che, in realtà, pur esistendo non era mai stata applicata. Da lì a immaginare la storia di un bimbetto disabile che desiderasse andare a scuola nonostante i pregiudizi e l’emarginazione il passo è stato breve. E così è nato il piccolo Felice, imperfetto, sbeccato, colmo di cigolanti ferite. Ma è proprio dalle crepe che passa la luce, e questo bimbo farà un’esperienza di pienezza nonostante la fragilità della sua condizione.
All’interno del romanzo si parla di giustizia alata. Cosa intende esattamente?
Vuol dire che la risposta della giustizia purtroppo è spesso imperfetta. Nel senso che l’uomo e la sua condotta, o anche i suoi processi, non saranno mai in grado di risarcire e di ripristinare squarci dolorosissimi, squilibri senza pietà, situazioni smarrenti, che nessun codice e nessun sistema normativo, per quanto razionale, ha la possibilità di rimarginare. La risposta dei Tribunali umani può essere colma di abnegazione, ma mai totale. E allora la giustizia si fa alata come un bellissimo tordo migratore che sorvola con compassione sulla terra, senza mai riuscire a posarsi su nessuna delle vittime della storia, sui deboli, sui dimenticati.
Elsa Morante sosteneva che la Storia è sempre il grande scandalo, un mostro che fagocita i più deboli. Se è vero che la storia è in mano a chi è al potere, la letteratura può dunque essere un mezzo per estraniarsi da questa situazione o addirittura per rovesciare questo potere?
Ma la storia, in qualche modo, è destinata a ripetersi – come sembra suggerire anche lo schema circolare della sua narrazione: è perciò impossibile aspirare a un totale ribaltamento di essa?
Elsa Morante è la mia più grande maestra e ha ragione. La storia è un grande scandalo, e fagocita gli umili, i deboli, i tralasciati. La letteratura però, raccontando le loro vicende, svelando la loro paura, e il loro amore, e il loro tentativo di opporsi, può far indignare, commuovere, riflettere. E operare quella rivoluzione – la rivoluzione del pensiero – che è l’unico modo per ribaltare il destino. La storia sì, tende a ripetersi, a cadere negli stessi abomini, a perpetuare lutti e cataste di morti. Ma è possibile un cambiamento, a partire da quel piccolo seme che è la coscienza individuale. Quindi ciascuno di noi è responsabile e deve fare la propria piccola parte.
Le streghe di Lenzavacche erano donne bistrattate dalla società, vittime di un retaggio culturale bieco e ignorante, costrette ad affratellarsi per sopravvivere; chi sono oggi le streghe?
Sono i migranti, i detenuti, i dimenticati. Tutti coloro che si trovano sia in situazione di fragilità che di emarginazione. Sommano in sè due condizioni terribili: essere diversi ed essere sospetti. E la diversità fa sempre paura, porta ad ergere muri, a separare, a non includere e a ghettizzare.
Il personaggio maschile del suo libro è profondamente legato alla letteratura e all’esercizio della scrittura. In una lettera alla zia leggiamo: “… solo raccontandomi esisto veramente, solo scrivendo mi vedo e mi raccolgo, un atto pietoso, il mio, di reduce, di condannato, di imputato e vittima. Tutto sono e in tutto mi scopro, ma solo se mi scrivo e mi rivelo, solo se lascio che questa umanità ingenerosa e affaticata affiori come il sangue. Poi poso la penna e contemplo le tracce che l’inchiostro ha lasciato sulle dita. Ferite sembrano, come quelle di Giona“.
Cosa vuol dire, per lei, scrivere?
Vuol dire essere me stessa, è la mia modalità di esistere. Vivo, ho sempre vissuto scrivendo. La parola è una educatrice perchè ti porta nel cuore di te, della tua intimità e dei tuoi limiti. Ti svela, ti rivela, ti guarisce.
La potenza narrativa di una storia che aspira a scardinare le regole sociali, per mettere in primo piano le disabilità degli ultimi è stata premiata dalla candidatura al Premio Strega: ci parli di questa esperienza.
Un dono, questa esperienza. E un incrocio sorprendente di voci, sguardi e vite. Io e gli altri candidati abbiamo fatto un percorso bellissimo, ci siamo conosciuti, ci siamo scambiati le e-mail, i numeri telefonici e le speranze. Abbiamo gioito di questi momenti di condivisione.
Quali sono i suoi progetti letterari?
Continuare a scrivere, fare teatro con i detenuti, iniziare un percorso letterario con i bambini disabili e leggere, leggere, leggere!