Comunemente la critica letteraria inserisce Federico De Roberto (1861-1927) nell’àmbito del verismo, ma la sua opera narrativa è ricca di elementi psicologici e introspettivi. Questo aspetto emerge dalla lettura di alcuni testi raccolti in un volumetto intitolato La paura e altri racconti della Grande Guerra (Edizioni e/o, Roma 2015, pp. 139). Si tratta di quattro racconti di guerra (La paura, Il rifugio, La retata, L’ultimo voto), scritti fra il 1915 e il 1923 e volti a rievocare l’evento bellico con una commozione mista ad orrore e sdegno per la guerra. Sono questi anni i più fecondi dello scrittore siciliano, che pubblica novelle e racconti con divagazioni letterarie sull’amore e sul Potere. Se il suo capolavoro I Viceré (1894) rappresenta la protesta di un liberale meridionale contro la classe politica del Sud, i nuovi racconti analizzano sul piano storico-letterario la guerra come fenomeno obbrobrioso.
Preceduto da una erudita e acuta introduzione di Antonio Di Grado, questi colloca i racconti nel clima arroventato dell’Italia bellica, dove a Catania si assiste a un’adesione al conflitto prima dell’entrata in guerra. A differenza di altre città, dove vi è un serrato confronto tra interventisti e neutralisti, nella città etnea si una larga diffusione dell’interventismo, di cui De Roberto rappresenta l’ala moderata di un paternalismo illuminato, come si ricava dai suoi carteggi con il Comitato catanese di preparazione e con le personalità più influenti dei diversi schieramenti politici. Persino insigni pedagogisti come Giuseppe Lombardo Radice e il socialista riformista Giuseppe De Felice Giuffrida sono assertori di un interventismo moderato.federico3
Il volumetto si apre con il racconto La paura (pp. 17-47), che venne pubblicato per la prima volta il 15 agosto 1921 sul periodico «Novella», poi rieditato sulla «Fiera Letteraria» del 31 luglio 1927 alcuni giorni dopo la morte di De Roberto. Scritto in un clima nazionale di retorica patriottarda, egli denuncia l’orrore della guerra come un testimone, che sottolinea le concrete ragioni umane legate ad un istinto vitale, alieno dagli ideali astratti imposti da impulsi nazionali e da scelte governative. Il testo può essere considerato infatti il racconto più significativo e idoneo a ricordare il centenario della Grande Guerra per la triste storia di un soldato. Esso racconta la vicenda di un giovane che rifiuta di partecipare ad una rischiosa missione per suicidarsi, dopo l’annuncio della condanna a morte. Nella denuncia del suo crudele destino emerge così l’odio verso l’uccisione dei propri simili, costretti alla guerra per motivi ignoti in alta montagna fra neve e rocce. Un racconto che si tinge di un contenuto antieroico, la cui descrizione è resa più vivida dall’uso di espressioni dialettali, che – come afferma giustamente Di Grado – confermano l’attitudine plurilinguistica della scrittura derobertiana e «testimoniano l’unità nazionale irrealizzata» (p. 13): gli adepti del «viceré» si convincono sempre più che, fatta l’Italia, bisogna fare i propri affari. La rappresentazione eficace dell’esercito regio è costituito da soldati, che – con la loro parlata dialettale e con le loro distanze culturali – fronteggiano gli Austriaci per oltre tre anni con animo triste e rassegnato.
Nella novella Il rifugio (pp. 49-84) l’esecuzione del disertore è vissuta dai soldati con angoscia equivalente alla denuncia dell’insensatezza del conflitto, mentre nel racconto La retata (pp. 85-104) si ha una parodia dell’agiografia bellica, dove la cucina italiana è innalzata a una dimensione eroica con il riferimento nazionale agli spaghetti e ai minestroni. Quasi una raffigurazione dell’umile Italia, che sembra precorrere la visione cinematografica del realismo. Nell’ultimo voto (pp. 105-139) l’orrore della guerra, intrisa di ingiustizie e di disumanità, si congiunge ad un’atmosfera tetra e gretta tipica degli epigoni della razza padrona dei «viceré». A differenza del racconto La paura, certamente il racconto più riuscito, gli altri tre concentrano lo sguardo in un mondo di trincee, comandi, imboscate con personaggi tragici e grotteschi. Tuttavia l’attenzione verso i ceti meno abbienti non è dettato da un’adesione al socialismo, ma da una sensibilità personale che conferma un De Roberto analista scrupoloso e rivela uno scrittore singolare e interprete attento della sua epoca.