Donne. Capaci di fare la storia, nelle pieghe più profonde della vita quotidiana. E di scriverla, quella storia. La forza amorosa. La lucidità dell’intelligenza del cuore. E l’attitudine speciale a coltivare passioni e nutrire visioni. C’è tutto questo, nelle pagine di “Le streghe di Lenzavacche” di Simona Lo Iacono, magistrato per professione, scrittrice per scelta creativa, volontaria nel carcere di Brucoli (Siracusa), dove tiene ai detenuti corsi di letteratura e teatro. Scrivere, appunto, come senso del vivere. È un luogo immaginario, Lenzavacche, nel Sud Est barocco della Sicilia. Ed è naturalmente un luogo reale, dove s’addensano superstizioni e spirito gretto e servile di paesi dove non è ancora arrivata l’eco dell’impegno per il riscatto sociale e civile. In scena, una donna appassionata e madre amorosa, Rosalba. Un bambino deforme ma affamato di vita, di cui già nel nome, Felice, Rosalba ha cercato di riscattare il destino. E una nonna sapiente e volitiva, Tilde, discendente, s’insinua, dalle streghe che nel Seicento avevano reso tristemente famosa la contrada (ma erano solo donne abbandonate dai mariti, tradite, emarginate). E c’è un maestro di belle speranze, Alfredo Mancuso, che ama insegnare raccontando storie. I loro destini s’incrociano, nella Sicilia degli anni Trenta, provincia bigotta, conformismo in camicia nera fascista. E si ritrovano nel tentativo di difendere i diritti di parola e d’amore. Riuscendoci, a loro modo. Come svelano pagine di buona letteratura, con personaggi ben costruiti, capaci di dare respiro alle fragilità e all’ansia di libertà.