Ho finito L’amica geniale di Elena Ferrante ieri pomeriggio, e la prima cosa che ho pensato è stata: wow. Mi è piaciuto tantissimo, e penso che uno dei motivi principali sia la sua scrittura. Delicata ma puntuale, dinamica ma leggera, così precisa, e allo stesso tempo così evanescente che ti dà la sensazione che basti schioccare le dita per riuscire a penetrare dentro le cose, quando invece è così difficile. È una scrittura che spoglia personaggi ed eventi, per mostrarli crudamente al lettore. Ma la crudezza di ciò che accade in questo straordinario romanzo non è mai dura, eccessiva, ridondante; è semplicemente la crudezza del ritmo quotidiano della vita e del moto perpetuo dei sentimenti, due movimenti che girano e si inseguono, si intrecciano per poi separarsi, lasciandoci senza forze.
Mi sono da subito identificata con la voce narrante e protagonista, Lenù: la sensazione di doversi appoggiare a qualcuno, di dover avere un termine di paragone per riuscire a fare veramente bene le proprie cose, l’ammirazione per una persona che riteniamo superiore a noi in tutto.. sono sentimenti che mi sono appartenuti, e che in parte mi appartengono ancora. Scattando così velocemente l’empatia, la storia mi ha fortemente coinvolta fin dalla prima pagina. E sarà che ho esperienza personale di compagnie di amici in luoghi che sembrano fuori dal mondo, ma mi sono davvero emozionata molto, in ogni momento.
Lila è un personaggio straordinario, oscuro, incomprensibile. Le sue azioni sono imprevedibili, ma sembrano poi sempre giuste per il racconto, mai fuori luogo. È Lenù a sentirsi sempre un po’ fuori posto, senza mai capire veramente perché, almeno non fino alle ultime pagine del romanzo.
La Napoli degli anni Cinquanta è evocata attraverso pochi scorci, perché la maggior parte della vicenda è ambientata nel rione in cui le due amiche sono nate. La violenza è il linguaggio quotidiano, ciò che è sempre importante è mantenere l’apparenza, la scuola è quasi vista come un vizio: ciò che conta davvero è lavorare. Alle elementari, Lila era il genio, ma anche Lenù non se la cavava male. Per questo motivo, a entrambe era stato proposto di frequentare le scuole medie, percorso inaudito all’epoca, e in quel luogo. A Lila viene proibito dai genitori, deve cominciare a lavorare. Lenù invece intraprende questo nuovo cammino, ma sente che senza l’amica da fronteggiare, le sue vittorie scolastiche valgono molto meno. È solo quando scopre che Lila studia di nascosto che le torna la passione.
La vicenda procede seguendo la vita di Lila e Lenù e dei loro amici, dei loro amori. I personaggi, sempre tratteggiati con pochi tratti, ma fortemente evocativi, girano intorno alle due protagoniste creando una rete fitta e complessa di relazioni. Il lettore non riesce mai a immaginarsi i risultati di questi intrecci, soprattutto quando ci si mette di mezzo l’estro folle di Lila.
Il romanzo scava dentro la naturalezza dei rapporti umani, l’alienazione causata dalla ripetizione ossessiva degli stessi immotivati codici morali, l’appartenenza a un gruppo come prigione vincolante; domanda al lettore quali siano i suoi confini tra identità individuale e influenza dell’ambiente circostante, per lasciarlo pieno di dubbi, ma illuminato da una storia magistrale per livelli narrativi, linguaggio, emozioni. Mi ha stupita ad ogni riga, mi ha commossa, mi ha turbata. Non mi aspettavo niente di tutto ciò, per cui non so neanche cosa aspettarmi dalla lettura degli altri tre volumi della saga. La voglia di sapere che cosa succederà è strettamente intrecciata alla paura, non tanto di incappare in spiacevoli avvenimenti, quanto di trovare dentro di me, attraverso questi romanzi, ciò che non ho mai voluto vedere.