"Indossavano dei grembiuli di piombo, ma la radiazione veniva dal basso e loro sotto non avevano nessuna protezione. Ai piedi, per dire, avevano dei normali stivali di similpelle". Sono le parole di uno delle migliaia di militari, riservisti, operai e tecnici chiamati a "liquidare le conseguenze dell'incidente di Chernobyl", una delle testimonianze raccolte da Svetlana Aleksievic in "Preghiera per Cernobyl" (edizioni e/o). Furono loro, i liquidatori, a costruire, in condizioni estreme, il primo sarcofago del reattore n.4, esploso all'una e ventitré della notte tra il 25 e il 26 aprile 1986. "Ci hanno dato un camice e un berrettino bianco per uno. Una mascherina di garza...Un giorno sgombravamo le macerie e raschiavamo le superfici in basso e un giorno di sopra, sul tetto del reattore". Dove i livelli di radioattività erano altissimi. "Tempo a disposizione 40 o 50 secondi per volta. Questo secondo istruzioni. Ma era chiaramente impossibile, ci si metteva qualche minuto tra andata e ritorno, carico e svuotamento". Li chiamarono anche bio-robot, perché a differenza dei robot veri e propri, che andavano subito in avaria, quegli uomini resistevano. A mani nude, senza adeguate protezioni, lavoravano, in corsa contro il tempo, per ricoprire in un manto di cemento il reattore che continuava a bruciare. Una copertura che doveva essere provvisoria, ma che a 30 anni dall'incidente è ancora lì, infiltrata da acqua e neve. Il lavoro dei liquidatori non fu solo questo: sotterravano la terra contaminata, interravano interi villaggi dopo aver lavato strade, case, macchine, trattori. Avevano ordine di non parlare con la popolazione, per non creare panico. Erano volontari. "Ma nessuno si lamentava. Se si deve andare, si va. La patria ha chiamato, la patria ha ordinato. Il nostro popolo è fatto così". Molti morirono poche settimane dopo, altri si ammalarono e si spensero negli anni successivi. Trent'anni fa l'inizio dell'incubo Unione Sovietica, 1986. Sono gli anni di Reagan e dell'impero del male, l'espansione nucleare è uno degli obiettivi. È l'1, 23 e 40 secondi della notte del 26 aprile quando dal centro di controllo del reattore n.4 della centrale nucleare di Chernobyl, all'epoca cittadina sovietica, si dà il via ad un test di sicurezza. Il vice capo ingegnere Anatoly Dyàtlov ordina di procedere, senza rispettare i protocolli. Ignora che un difetto di progettazione rende quel reattore instabile a bassa potenza, un'informazione riservata che nessuno in quella sala conosce. In quell'istante il reattore aumenta di cento volte la potenza e quattro secondi dopo esplode, la struttura che lo protegge collassa. La nube radioattiva che si sprigiona si propaga prima in Svezia e in Scandinavia, poi in Europa sud occidentale, fino a sfiorare la costa dell'America orientale. Inizia così il disastro nucleare più terribile della storia, l'incubo di Chernobyl, sinonimo anche di informazioni taciute e manipolate. Le città di Chernobyl e Pripyat, evacuate dopo quasi 48 ore dal disastro, e la zona di esclusione, un'area estesa diversi chilometri, sono oggi luoghi fantasma, e a causa delle radiazioni non saranno abitabili per i prossimi 20mila anni. Ma ancora 5 milioni di persone abitano su terreni contaminati, consumano ortaggi che nascono in quelle terre e bevono acqua che scorre su quei suoli. I liquidatori e la prima copertura Subito dopo il disastro accorrono sul luogo 600mila persone tra militari, operai e tecnici per prestare i primi soccorsi. Inizia in una corsa contro il tempo la costruzione, in condizioni estreme, di quello che verrà chiamato il sarcofago, una copertura del reattore fatta da tonnellate di cemento armato. I cosiddetti "liquidatori" lavorano vicino al nucleo dell'esplosione, con maschere antigas e tute che non li proteggono dalle radiazioni. E molti di loro pagheranno con la vita il loro impegno. Una copertura, costruita in sei mesi, che doveva essere temporanea, ma che è ancora lì, e versa in pessime condizioni, deteriorata dal calore del reattore che continua a bruciare e dalle intemperie. Ogni anno si aprono nuove crepe, l'acqua si infiltra, con il rischio di contaminare le falde sotterranee. E un altro dei punti deboli è che non consente l'accesso al reattore. (Cartoline da Pripyat, la città fantasma dove prima dell'incidente vivevano i lavoratori della centrale con le loro famiglie) Le vittime Le vittime accertate dal Rapporto Onu sono 65, ma negli anni 4mila persone sono morte, direttamente o indirettamente, per Chernobyl. Cifre contestate da altre ricerche, come quella pubblicata nel 2010 dall'Accademia di scienze di New York, che parla di 1 milione di morti, e da associazioni come Greenpeace, che ha stimato in 6 milioni di morti, negli anni, le vittime a livello mondiale. Il nuovo sarcofago che ricoprirà il reattore n.4 Ha la forma di un arco lungo 162 metri e con i suoi 108 metri di altezza potrebbe coprire la Tour Eiffel e anche la Statua della Libertà. Si chiama New Safe Confinement (NSC), il progetto in costruzione della joint-venture francese Novarka che dovrà ricoprire il reattore n.4 e il suo attuale manto di cemento per i prossimi 100 anni. Ad amministrare il fondo che lo finanzia, lo shelter fund, è la Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo, per 1 miliardo e mezzo di euro su un totale di 2 miliardi. A fornire i materiali in acciaio, un'azienda italiana, la Cimolai di Pordenone. Il nuovo sarcofago non avrà soltanto il compito di contenere il materiale radioattivo e proteggere dalle aggressioni climatiche quello esistente, ma consentirà anche di smantellare il reattore attraverso un sistema di ponti mobili. Lo scorso anno è stato completato l'arco, tutti i pezzi sono stati preassemblati lontano dalla centrale, e sono poi stati montati nella cosiddetta area di montaggio, a 300 metri dal reattore, in modo da limitare al massimo il lavoro nella zona. Un'area bonificata dove è possibile lavorare senza maschera, in turni di 5 giorni che prevedono uno stop di 15 giorni dopo 15 di lavoro. Un progetto che impiega oltre 1000 operai ucraini impegnati simultaneamente, con 60 persone addette esclusivamente alla sicurezza del sito, che monitorano continuamente la radioattività e la contaminazione atmosferica. È stato ideato per resistere a temperature che vanno da -43 gradi a +45, a un tornado di classe 3 (che si verifica ogni milione di anni), e anche a possibili terremoti, in una zona a rischio sismico come l'Ucraina. Alla fine di quest'anno il nuovo sarcofago verrà fatto scivolare su quello attuale, e a quel punto sarà completamente isolato rispetto all'esterno. Nel 2017 verrà fissata la membrana che rende l'arco ermetico e saranno ultimati i test delle varie funzioni. (L'animazione che mostra le fasi della costruzione del New Safe Confinement) Il nuovo sarcofago getterà le basi per la dismissione del vecchio reattore: "la prima cosa da fare entro il 2023 - spiega Carlo Mancini, presidente del Chernobyl international advisory group, che media tra la Bers e Novarka - sarà lo smontaggio delle parti instabili del vecchio sarcofago". Parti che saranno poi trattate in un deposito che si occupa dei rifiuti solidi radioattivi all'intero dell'area di esclusione. "Il tema della dismissione del reattore - aggiunge Mancini - non è stato ancora affrontato. Ci vuole un deposito in Ucraina, che non ci sarà prima dei prossimi 30-40 anni. Se lo mettessimo a punto oggi tra 40 anni sarebbe obsoleto. Ma le premesse per l'operazione ci sono tutte". Preghiera per Chernobyl, la storia mancata C'è un prima e un dopo. Chernobyl è un "annozero" dopo il quale tutto cambia anche se sembra lo stesso. Il nemico è invisibile, colpisce senza lasciare scampo ma le sue tracce non sono immediate, tutto sembra lo stesso. Tutto è profondamente modificato. Come una guerra senza bombardamenti ma di cui non si conosce la fine. Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura 2015, ha scelto di raccontare "il popolo di Chernobyl", le storie di un'umanità colpita, quello che la tragedia significò per l'anima delle persone. "Di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Chernobyl...Tu vorresti essere come tutti ma non puoi. Non ti è più possibile". Così spiega lei stessa: "Riguarda ciò che l'uomo ha appreso, intuito, scoperto, su se stesso e sul proprio atteggiamento nei confronti del mondo". In "Preghiera per Chernobyl" (edizioni e/o) la scrittrice ucraina racconta il fatalismo e l'accettazione di chi alla fine riprende la propria vita come se nulla fosse cambiato, i ricordi di chi per spirito di sacrificio non rifiuta di recarsi là dove la vita incontra il suo destino mortale. Chi decide di non lasciare le proprie case, i cani e i gatti, il proprio mondo, dove tutto sembra identico a prima. C'è chi sceglie di vivere nella zona interdetta, dove gli uomini sono diventati rari, per sfuggire alla violenza degli uomini. "Forse non c'è stata nessuna Chernobyl. Magari è tutta un'invenzione". "Non posso aver paura della terra, dell'acqua...è dell'uomo che ho paura". E ci sono le donne, forti, determinate, spose innamorate e madri coraggio, che vivono l'urgenza di riaffermare che Chernobyl non può macchiare anche il loro amore: non è colpa dell'amore di Liusenka per suo marito, ucciso dalle radiazioni, se la bambina che porta in grembo muore appena nata. E non è colpa dell'amore dei suoi genitori se la loro piccola di 4 anni è nata con delle malformazioni. La responsabilità è di quel nemico senza odore né ombra: "Se almeno fosse qualcosa che si vede". Il sottotitolo del libro è "cronaca del futuro", la Aleksievic lo spiega così: "Più di una volta ho avuto l'impressione che in realtà io stessi annotando il futuro".