La casa blu che dà il titolo al libro si trova in Svizzera, a Pfàffìkon. È un luogo della morte: un centro per suicidi assistiti. Un padre - uno scrittore in crisi cresciuto nel mito di Truman Capote - e un figlio di 15 anni, in macchina, sono diretti proprio lì. La motivazione? Un reportage che il padre vorrebbe scrivere e, con l'occasione, far fare anche qualche giorno di vacanza a un figlio di cui sembra ignorare quasi tutto. Il figlio: «Perché sei così?». ll padre: «Non lo so». E una madre rimasta a casa, piuttosto preoccupata, che del suo rapporto col marito ha un'idea disillusa e molto precisa: «Hai trasformato la nostra casa e il nostro matrimonio in un orrendo manicomio. Siamo prigionieri da 25 anni. Tu l'abominevole alienato, e io la nevrastenica custode». Che cosa è successo 25 anni prima? Lo sappiamo all'inizio della seconda parte del romanzo. nel momento in cui entra in scena, in Svizzera, un altro importante personaggio: l'unico sopravvissuto a una strage accaduta in provincia di Treviso il 17 agosto 1990, appunto 25 anni prima di questo viaggio a Pfaffikon, quando cioè, durante una rapina, una banda di malviventi serbi gli avevano massacrato i genitori, il fratello e la sorella. In quell'occasione il padre - non possiamo chiamarlo altrimenti: è un uomo di cui Governi non ci dice il nome - è sul luogo del delitto per scrivere un articolo, che sembrerebbe avviarlo a una carriera brillante la quale, invece, non c'è mai stata. Un articolo - è particolare non da poco nello sviluppo del romanzo-che produrrà nel sopravvissuto più d'un motivo di risentimento verso il padre. Non credo sia necessario dare altre informazioni, se non aggiungere due cose: il sopravvissuto è arrivato sin lì perché ha un cancro al fegato al suo stadio terminale; il padre, depresso e in preda a quotidiane allucinazioni, è lì - lo scoprirà lo stesso figlio - non per il reportage, ma per farla finita. Il nuovo triangolo avrà sviluppi impensati e salvifici. Un triangolo che ha il suo decisivo perno nell'unico vertice non malato: il giovane e intelligentissimo figlio, il più equilibrato e maturo dei tre personaggi. Un angelo custode, verrebbe da dire: a tutti gli effetti e in un senso pieno del termine. Massimiliano Governi conduce questo romanzo scarno ed essenziale con lucidità implacabile, con pietà trattenuta, con infinita tenerezza paterna. Un romanzo tesissimo e senza smagliature: in perfetta coincidenza con se stesso. Ma con un solo errore, io credo, che si poteva evitare facilmente. Il figlio è spettatore critico e partecipe d'una famosa serie televisiva, che in molti abbiamo amato: True Detective. In un punto cruciale del confronto col padre, il figlio ci restituisce, assai suggestivamente, il ritratto analitico d'uno degli eroi della serie, Rust Cohle, che lui ritiene assai somigliante al proprio genitore. Sentite qua: «Rust ha finalmente compreso che deve provare la pietà di esistere, di continuare a esistere, ha accettato scientemente gli eventi e con questo ha posto fine al suo purgatorio. Un purgatorio sconvolgente dove lui ha funzionato da magnete elettrostatico, e tutto il resto da corpo in attrazione». È una breve citazione del discorso del figlio. L'impressione è inequivocabile: un quindicenne, anche il più attrezzato e colto, non potrebbe mai parlare così. Sarebbe solo bastato immaginarlo due anni più grande.