Incipit (preso da qui)
Dicono che sono fumoso, contraddittorio, bugiardo. Sono tutti pronti a sputare sentenze su di me: poliziotti, magistrati, giornalisti, criminologi, conduttori televisivi, pure il primo stronzo che cammina per la strada. Perché questo non ce l’ha detto prima, come ha potuto fare quest’altro, non erano state queste le sue parole. Ma che ne sanno di come ci si sente di fronte a certe disgrazie? Provassero a fare un giro nelle mie scarpe prima di parlare. Vorrei vedere le loro, di vite, spiate come hanno fatto con la mia. Tutti bravi a fare i moralisti fin quando stanno dall’altra parte, ipocriti. E se lo facessero a te? Prova a pensarci. Se ti spogliassero e ti buttassero in piazza nudo, senza poter nascondere niente, ma proprio niente, sei sicuro che gli altri ti troverebbero così attraente? Sii sincero, non hai anche tu qualcosa di cui vergognarti, qualcosa che DEVE rimanere solo tua? Prima che succedesse questo schifo io avevo una vita meravigliosa, una villa in collina, un locale che era l’invidia di Tivoli, una Mercedes, due figli fantastici, una moglie che adoravo e che mi amava, e ora mi hanno portato via tutto. Tutto. Io l’ho capito che non gli piaccio a questa gente, ma non per questo non mi devono credere. E tu, almeno tu mi credi se ti dico che io sono la vittima?
Ci sono libri che si possono leggere in tanti modi, diversi tra loro. Come quest'ultimo di Luca Poldelmengo, “I pregiudizi di Dio”: un giallo su un omicidio che ricorda i tanti casi di cronaca che leggiamo sui giornali, un racconto con al centro tre personaggi e le loro psicologie, le loro paure, i sensi di colpa.
Persone normali, se viste da fuori, ma con dentro tanti segreti che si fa fatica di confessare anche a se stessi o magari con una doppia vita, sui social.
Ancora, per volare sempre più un alto, un saggio sul senso di giustizia su questa terra. Dopo l'esperimento, tra l'altro ben riuscito, del romanzo distopico “Nel posto sbagliato” un thriller con sfumature di science fiction , Luca torna alle origini riprendendo parte dei personaggi che avevamo già incontrato ne “L'uomo nero” e chiudendo tutte le storie che in quel racconto rimanevano sospese.....
Chi sono i personaggi del romanzo: sono due uomini alle prese coi loro demoni, per un dolore passato che li ha privati di una persona che stava loro a fianco, lasciando dentro un senso di colpa, per non essere stati capaci di proteggere questa persona, ma anche un violenti propositi di vendetta.
Due uomini che sono anche due poliziotti, Andrea e Marco, con una storia professionale alle spalle che non potrebbe essere più diversa: il primo un poliziotto con anni di Squadra Mobile alle spalle, il secondo entrato in polizia non per vocazione ma per scelta paterna, essendo figlio del vicecapo di polizia.
Andrea era stato un bravo segugio, fino all'abbandono della moglie e ad un incidente capitato in un'azione:
“un uomo integerrimo, uno per cui l’etica aveva un preciso valore, uno mai sceso a compromessi. Ma Andrea non era più quell’uomo. La perdita di Alice lo aveva svuotato”.
Marco Alfieri invece l'abbiamo già conosciuto nel romanzo “L'uomo nero”, il poliziotto che aveva passato una vita a nascondersi dietro l'ombra del padre, il potente vice capo della polizia Donato Alfieri.
“Marco aveva già varcato la soglia etica di fronte alla quale può trovarsi un poliziotto. Era andato oltre, era sceso a compromessi con la sua coscienza”.
Due poliziotti che si ritrovano nello stesso commissariato a Mandela, in realtà solo un presidio di polizia nella valle dell'Aniene, vicino Tivoli.
Una zona a metà tra il grande raccordo anulare e la città di Tivoli, un susseguirsi di abitazioni più o meno abusive, cattedrali del gioco d’azzardo, capannoni industriali attivi e dismessi diventati rifugio di immigrati, discariche e cave di travertino che sembrano crateri lasciati da bombe.
C'è una terza persona che, a metà racconto, si aggiunge ai due: Francesca anche lei poliziotta, anche lei alle prese con un fardello pesante, per un rapporto sentimentale tenuto nascosto, dentro.
In questo territorio, “che aveva subìto un’immigrazione selvaggia, sregolata e disperata”, i due poliziotti sono andati a rifugiarsi, per scappare dalle loro cicatrici (che conoscerete nel corso del racconto). Finché un giorno non piomba al presidio un signore a denunciare la scomparsa della moglie, Margherita, poi trovata morta.
Il sole di quella mattina di maggio doveva ancora raggiungere il fondo della valle. La brina ricopriva l’erba, inumidiva i rami secchi, bagnava la carne. Il cadavere era prono, disteso in un fosso, coperto da frasche gettate sopra per confonderlo alla vista. Il commissario Andrea Valente scese ancora di due passi. Arrivò di fianco a uno degli agenti in tuta bianca che stava liberando il corpo dai rami. Da lì poteva osservare con più chiarezza la figura femminile: la gonna di jeans sollevata, gli slip celesti abbassati alle caviglie, gli evidenti segni di escoriazione profonda intorno all’ano. Lungo il collo c’erano delle larghe ecchimosi, una guancia era poggiata sull’erba. Il viso violaceo era comunque riconoscibile. Il commissario Valente, un decennio in forza alla squadra mobile, sezione omicidi, non sarebbe stato in grado di ricordare quante volte aveva dovuto assistere a scene come quella. L’abitudine è una patina in grado di rivestire anche le esperienze più estreme, relegandole nel novero della normalità. Era questo tratto dell’adattabilità umana a rendere esercitabili professioni come la sua. Ma questa volta era diverso, il diaframma che separava l’uomo dal poliziotto era venuto meno. Andrea aveva lasciato due passi indietro il commissario Valente, era uscito allo scoperto, ed era stato investito dall’angoscia.
La vera giustizia non è di questo mondo, e ciò che chiamiamo bene e male forse sono solo i pregiudizi di Dio.
La frase è una citazione presa da Nietzsche: per raggiungere questa giustizia, fino a che punto siamo disposti a spingerci, saremmo capaci di andare oltre i confini etici che ci siamo dati?
“C’è chi ha scelto di superarlo, il confine, premendo il grilletto in una notte piovosa per vendicarsi, conscio che non sarebbe ritornato indietro, mai”.
Come il confine tra il bene e il male, quello che, una volta oltrepassato non i fa più tornare indietro, perché hai perso quella rettitudine morale, segnando un confine tra un prima e un dopo.
E non riuscendo a fare i conti con la tua coscienza sei costretto alla menzogna, la scelta più facile per continuare a vivere.
Andrea e Marco, i due “uomini soli”, si ritrovano a fianco per indagare su questo omicidio, uno di quei casi che risveglia la morbosità dei media, che su questi episodi di cronaca vanno a sviscerare la vita dei presunti colpevoli, sbattendola in televisione senza nessun filtro. Così si sazia la pancia delle persone, le loro paure, il bisogno di individuare il mostro..
L'indagine li metterà di fronte ai dolori irrisolti ai loro sensi di colpa che si portano dentro come un peso che li affossa, impedendo loro di guardare avanti. Finché arriverà per il loro il momento di fare delle scelte. E attraversare definitivamente quel confine.
«Un buon poliziotto direi di no, un bravo poliziotto forse».
«E qual è la differenza?».
«I bravi poliziotti fermano i cattivi».
«E quelli buoni?».
«Lo fanno nel modo giusto».
Un romanzo dove il lettore viene portato dentro la storia, dentro i suoi luoghi, i suoi colori e i suoi odori.
Luoghi e persone che vengono rappresentate in modo chiaro, in poche parole, facendo uso di metafore suggestive, dell'uso dei colori per raccontare delle sensazioni, come il bianco della polvere di Travertino che si insinua dappertutto.