Era sempre stato così per le streghe.
Ricamavano scene d’amore perché si avverassero, allestivano corredi per neonati che non erano ancora concepiti, anticipavano tutto con accondiscendenza assoluta. C’era un ordine nella natura e nel creato al quale collaboravano pacificamente, seguendo la rotta delle stelle cadenti, inginocchiandosi alla luna pellegrina, sbraitando preghiere propiziatorie. Non erano nobili, non erano popolane, non erano serve né padrone.
Libro candidato al Premio Strega 2016. Presentato da Paolo Di Stefano e Romana Petri.
Nasce da un utero sacro e magico, Felice. Nasce nell'olezzo di ibiscus, cardamomo e valeriana. È il figlio di un arrotino senza nome, di un amore bruciato sotto le stelle, un amore illegittimo che si è consumato senza chiedere permesso al vociare di un paese avido del peccato degli altri.
Muoiono presto i figli accussì mormorano le donne affacciate alle finestre quando passa Felice, dal trespolo più alto del mondo, la groppa della madre. È un bambino nato sotto una stella speciale, che lo ha voluto deforme e senza parola, ma capace di un’attitudine unica: quella di saper ascoltare le storie, di averne una sete bruciante. Venuto al mondo a Lenzavacche, un minuscolo paese di quella che era una Sicilia ipocrita e licenziosa negli anni neri del fascismo, Felice non è additato come diverso solo per le sue forme amorfe e mostruose. Il nascituro viene da una famiglia composta da sole donne e marchiata da secoli come una famiglia di streghe: un tempo Lenzavacche aveva accolto un gruppo di donne, spose abbandonate, donne gravide, vittime di stupri o incesti, figlie e sorelle ripudiate, sputate, offese. Insieme avevano iniziato a vivere in una comune, aiutandosi a vicenda e unendosi in una congregazione di autosostegno. Tante donne tutte insieme, capaci di autogestirsi senza l'aiuto di uomini, alzarono un polverone di dicerie in paese, diventando in poco tempo, per l'opinione pubblica, demoni, forze corruttrici e reiette, pericolose per lo spirito e per la carne. Donne da ardere vive e rimandare al centro della terra.
E proprio dal centro della terra, da quel nucleo infuocato di dannate, discende la famiglia di Felice. La madre, Rosalba, giovane puerpera senza un marito, scandalo dell’intero villaggio, cammina a testa alta davanti agli sguardi di chi, masticando veleno, predica a gran voce che un figlio deforme è una punizione di Dio. La nonna, Tilde, forza della natura e portento di donna, bofonchia tutto il giorno nomi astrusi, passando da un’erba all’altra, da un’imprecazione a un’antica litania in latino, pur di aiutare il nipote a crescere a mento alto, pur di trovare una soluzione ai suoi arti molli.
Tilde, Rosalba e Felice sono una famiglia atipica e per loro non c'è posto negli anni in cui una sola razza, pura, sana, forte e mediterranea deve conquistare la società perfettamente disegnata dal regime. Quale futuro può avere un bambino di siffatte forme, senza un uomo in famiglia, cresciuto da due streghe?
Ma Tilde e Rosalba, insieme al farmacista Mussumeli, amico di famiglia e Don Giovanni dall’animo nobile e giusto, combattono con le forze e con il sangue, per ottenere la più forte e la più antica richiesta dell'umanità, quel grido di secoli lontani che porta il nome di giustizia. Giustizia come fuoco fatuo, dai contorni sbiaditi, per tutte quelle donne bruciate negli echi di strazi millenari, per tutto quel sangue versato in nome di un dio che mai avrebbe comandato una tale carneficina. Giustizia per il peso di un peccato segnato nella carne, nelle vesti, per un paese che non accetta e non accoglie. Giustizia per un bambino innocente che nato in un corpo malfatto, porta dentro di sé tutta la meraviglia e le voci del mondo, in due occhi vivi che guizzano a ogni racconto, a ogni storia che custodisce le voci dell’universo, in ogni luogo in cui Rosalba lo accompagna per mostrargli la vita, dalle ville alle case di tolleranza, dalla strada al mercato, dalle ombre amorfe sui muri, proprio come lui, riflesse da un pupo:
Lo faceva muovere sotto i tuoi occhi strabiliati, che si accendevano di una felicità primitiva, disperata, incomunicabile al resto del mondo, una specie di ruggito finale, come se in quel pupo che si dimenava senza grazia stesse il segreto dell’universo.
La storia di Felice s’incrocia con quella del maestro Mancuso, mandato a insegnare nella scuola di Lenzavacche, una scuola "giusta e fascista". Mancuso ha un solo modo di fare lezione: tira fuori i libri e inizia a raccontare storie, insegnando agli alunni la forza e il portento dell’immaginazione, indispensabile per vivere una vita da esseri umani. Ma la ferrea disciplina fascista non condivide i metodi didattici del maestro che, ben presto, rischia l’espulsione.
La vicenda del maestro Mancuso e quella del piccolo Felice sono legate da un filo remoto e indissolubile, un filo forte come le urla delle streghe di Lenzavacche, bruciate nel Milleseicento, proprio in quei luoghi. Un filo collegato al potere delle storie, quelle narrate e quelle ritrovate in un'antica lettera risalente proprio al lontano 1699...
Grazie alla vitalità del maestro Mancuso e al suo amore per la cultura, Felice può avere una seconda possibilità nella vita. Grazie alla sua stramba famiglia e ai marchingegni inventati per abbattere ogni barriera, fisica e mentale, Felice vive una vita alla luce del sole e non un destino di vergogna e sudiciume, al buio di una cantina, come toccava ai "figli del peccato" come lui.
Un gruppo atipico di personaggi che, soli, poveri e disgraziati, lottano ogni giorno per andare contro i limiti dell'ignoranza e per inseguire nella vita quel candore che spetta solo alle anime elette da un profondo senso di umanità. Un libro sul prodigio della letteratura, sulla bellezza dei libri e sull'unica vera magia, quella dell'immaginazione che permette di andare avanti, di credere, di non arrendersi:
Coltivo questa idea oltraggiosa che la letteratura possa fungere da corazza, che sia la coltre dei cento nodi, il manto del re nudo.
Almeno fino a quando questa classe esisterà, fingeremo che possa salvarci.
Il racconto di Simona Lo Iacono fuoriesce da queste pagine con la forza di un portento naturale. Ha i colori della terra arsa e calda, di Sicilia, ha gli odori del basilico e dell’alloro, ha il cuore lavico di un racconto fatto di echi, ha una lingua che si modella tra un dialetto lontano e un latino romanzato.
Denso di evocazioni magiche, e senza mai perdere il contatto con la realtà, gli eventi di Lenzavacche sono intercalati da nozioni giuridiche dettagliate che precisano gli eventi sempre in bilico tra storia e profano, tra sacro e fiabesco. Una narrazione che ha il suo cuore in storie antiche, come le storie di Giufà, mormorate nella canicola di pomeriggi afosi, ai lati del cortile, mentre un’anziana nonna siciliana mastica una lingua perduta nei secoli.
Simona Lo Iacono colleziona echi, leggende e colori della sua terra per raccoglierli in una piccola storia. E poi ci mette dentro i libri e la letteratura. Quella forza indomabile che è metafora della vita.