Sono passati ottant'anni da quel fatidico 9 maggio 1936 in cui Mussolini s'affaccio al balcone di palazzo Venezia per annunciare che l'Italia aveva "finalmente il suo impero". L'Africa orientale italiana unione di Eritrea, Somalia italiana e Abissinia (o Etiopia che dir si voglia) si aggiungeva ai possedimenti libici, avverando un sogno. La conquista di un "posto al sole" tra le potenze coloniali non fu, però, la trionfale passeggiata, né la missione di civiltà, che la propaganda fascista tentò di accreditare. Al contrario: mostrò il volto più feroce e razzista del regime.
CRONACHE AFRICANE. Stragi, uso di armi proibite, segregazioni, repressioni, una politica di apartheid. Il mito degli "italiani brava gente" non regge più: si è infranto, negli ultimi decenni, sotto i colpi di testimonianze dirette e documenti d'archivio. Tra le prove che fanno riemergere queste verità c'è anche il memoriale di Filippo Salerno, avvocato pugliese scomparso nel 1991, che ricoprì, prima in Etiopia e poi in Libia, il ruolo di capo ufficio stampa della Milizia, vale a dire del corpo di volontari fascisti, le famose Camicie nere, che affiancava l'esercito. La sua testimonianza raccolta dal giornalista Rai Angelo Angelastro, che ne ha tratto un libro, è perciò particolarmente significativa.
Erano gli anni del consenso più forte attorno a Mussolini. Salerno, come tanti altri italiani, anche non fascisti, aderì inizialmente con entusiasmo all'avventura coloniale. Salvo accorgersi dei lati ora grotteschi ora tragici dell'imperialismo tricolore.
È risaputo che gli italiani si dettero molto da fare per dotare di infrastrutture i possedimenti africani. «Costruimmo più carrozzabili nel Tigré di quante l'intera Etiopia avesse mai avuto fino ad allora», rivendica per esempio Salerno. Ma ricorda anche che, cosa che pochi sanno, molti dei nostri operai persero la vita proprio per portare a termine questi grandi progetti. In Libia, inaugurazioni di infrastrutture "moderniste" e scavi archeologici che rispolveravano la romanità in chiave nazionalista divennero continua occasione per le parate delle autorità, dal duce in giù.
Fanno amaramente sorridere le pagine in cui Salerno racconta di quando gli toccava organizzare safari per gerarchi e industriali con mogli al seguito. Sognavano di tornare a casa dall'Etiopia con una zanna d'elefante o un leone impagliato. Ma dei pachidermi e dei grandi felini non c'era più traccia: erano tutti scappati verso il Sudan per il gran fragore delle bombe e lo sconquasso causato dalle armi chimiche. L'uso, anzi l'abuso, di gas tossici resta infatti una delle vergogne del colonialismo italiano. Già in Libia, tra il 1923 e il 1931, i nostri
avevano fatto ampio ricorso alle bombe al fosgene e all'iprite; in Abissinia vollero strafare.
REPRESSIONE BRUTALE. Viceré dell'Etiopia, e poi governatore in Libia, Rodolfo Graziani incarnò più di tutti il lato brutale dell'imperialismo nostrano. Dopo aver subìto, durante una cerimonia pubblica, il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, un attentato dinamitardo al quale scampò per un soffio, Graziani ordinò una durissima rappresaglia. Per tre giorni gli occupanti massacrarono uomini, donne, vecchi e bambini. Fecero tra i 4mila e i 6mila morti. Migliaia di capanne furono date alle fiamme, i fuggiaschi falciati a colpi di bombe. li "pogrom" fu l'inizio di una sistematica campagna di sterminio dell'intera nobiltà di etnia amhara e degli intellettuali etiopi. Con il pretesto di prendere i cospiratori e impedire futuri complotti, Graziani fece passare per le armi centinaia di cadetti militari, sospetti ribelli. E persino indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, colpevoli a suo dire di diffondere notizie false sulla dominazione italiana. Si dedicò poi a far piazza pulita del clero copto. Affidò il compito al generale Pietro Maletti, che in due settimane del maggio 1937 incendiò 115mila capanne, tre chiese e un convento e fucilò circa 3mila tra monaci e ribelli. Il "gran finale" arrivò nella città di Debra Libanos. Convinti, sulla base di fragili indizi, che gli abitanti della città-monastero fossero complici degli attentatori di Addis Abeba, gli uomini di Maletti fucilarono l'intera comunità, oltre 2mila persone. In totale, la rappresaglia di Graziani fece 30mila vittime.
TESTIMONE OEL MASSACRO. Altri eccidi si consumarono a Mai Lahla e Zeret. Nel primo caso (febbraio 1936) fu una rappresaglia per un cantiere della Gondrand assalito di notte da un commando abissino, che violentò le donne e trucidò gli occupanti. La vendetta fu spaventosa. Racconta Salerno, testimone di quei fatti: «Incaricarono della missione gli spahis, le truppe coloniali libiche, che ci aiutavano nell'invasione dell'Etiopia spostandosi a cavallo. Avevano la fama di combattenti spietati. E i nostri comandi riconoscevano loro il diritto di commettere, ovunque andassero, le più feroci razzie».
Nel villaggio di Enda Selassie fu uno scempio: «Presero donne e bambini, li stiparono in una chiesa e appiccarono il fuoco», ricorda Salerno. Nel 1939 partì invece una massiccia campagna di rastrellamenti nella regione dell'Alto Scioa, che culminò con l'uso delle armi chimiche. A Zeret un folto gruppo di civili, tra cui feriti e parenti di guerriglieri, s'era rifugiato in una grotta. Furono bombardati con l'iprite, fucilati o infoibati: le vittime furono oltre 1.500. L'eliminazione dell'aristocrazia e dell'intellighentia locali fu completata con la deportazione di 400 notabili in Italia e la segregazione nei lager di Nocra, in Eritrea, e Danane, in Somalia.
IL GENOCIDIO DEI SENUSSITI. Nel capitolo genocidi, il crimine peggiore fu commesso in Libia ai danni della comunità senussita, rea di appoggiare il capo della guerriglia locale, Omar alMukhtar. L'intero altopiano della Cirenaica (Gebel e Marmarica) venne evacuato nel 1930 per ordine di Graziani. Metà della popolazione della Cirenaica, lOOmila libici, furono deportati in vari lager, dove il 40% degli internati non sopravvisse. Esecuzioni pubbliche e fosse comuni erano all'ordine del giorno. Non contento, in Libia Graziani fece alzare un reticolato di 270 km per sigillare la frontiera con l'Egitto. Spesa: 20 milioni di lire dell'epoca (oltre 15 milioni di euro attuali). El'ennesima prova che il nostro colonialismo, in quanto a stile di governo, era in linea con le altre potenze e non cercò mai la via del dialogo. Fino al 1935 eritrei, somali e libici non godettero di diritti. E nell'epoca del governatore Italo Balbo (1934-1940). quando in Libia vennero chiusi i lager, i nomadi furono cacciati e le loro terre furono assegnate ai coloni italiani, per favorirne l'incremento demografico. «Un colossale furto, uno dei più palesi e odiosi che siano mai stati compiuti in Africa», ha sentenziato lo storico Angelo Del Boca. Senza contare le razzie in Cirenaica: 95% degli ovini e 80% di dromedari e cavalli confiscati o uccisi.
Certo non sarebbe corretto ricordare solo brutalità e abusi: qualcosa di buono fu fatto e ancora rimane. Si potrebbe tuttavia insinuare maliziosamente, come fa Salerno nella sua testimonianza, che agli italiani non convenisse, in fondo, pacificare quei domini. La fine dello stato di belligeranza avrebbe infatti significato la perdita di promozioni sul campo, medaglie e, soprattutto, di indennità di guerra. «Non si trattava di cifre irrisorie. Ogni mese, 900 lire di paga maggiorata», ha ricordato Salerno. Un conto era la retorica di regime; un altro gli interessi personali di tanti italiani.