Ode a Massimiliano Governi per aver ideato e scritto una storia così dura, intensa, a tratti disturbante, in tempi di frivola letteratura-cabaret. Anche se, per un altro verso, può suscitare alcune perplessità, come diremo tra poco. La casa blu (Edizioni e/o) è il viaggio di uno scrittore nella clinica di Zurigo dove praticano il suicidio assistito. Lui, affetto da una grave depressione ci va con il figlio, ma dicendogli una bugia, che cioè deve scrivere un reportage per un giornale. Poi la trama si sviluppa attraverso vari colpi di scena, ma alla fine lo scrittore scoprirà l’umile, pietosa verità del vivere quotidiano e avrà un ripensamento, anche ispirato da una frase della fiction televisiva True detectives («C’è solo una storia. La più antica. La luce contro l’oscurità») tornando a Roma con il figlio.
Il romanzo ha concentrazione stilistica e ritmo percussivo dei dialoghi, specie tra padre e figlio. Ora, le perplessità riguardano non solo Governi ma la nostra capacità di autorappresentazione, i limiti della nostra attuale cultura. E se il tema fosse troppo “alto”, quasi irraggiungibile per la narrativa odierna? Qualcuno può oggi, verosimilmente, mettersi nella testa e nel cuore di una persona che decide quel viaggio terminale?
In passato lo hanno fatto scrittori del calibro di Lev Tolstoj e Anton Cechov: nel loro mondo la vita e la morte erano ancora contigue e il sacro ancora non appariva del tutto obliterato. È come se il lettore attuale, nonostante l’abilità di Governi, sentisse che l’ordine dell’esistenza ha una sua tragica e serissima irreversibilità, che qualsiasi scrittura di oggi fatalmente non può che mancare.
La “conversione” del protagonista avviene in modo troppo meccanico. La disperazione estrema, e perfino l’orrore impliciti nella scelta del viaggio senza ritorno appartengono a una “altra dimensione”, lontana anni-luce dalla esistenza quotidiana del nostro presente. E forse per rappresentarli occorre una lingua anch’essa “estrema”, oltre l’universo stesso della “storia ben fatta”.