Sul piano tematico il racconto del dialetto, ma anche il suo superamento, ne L’amica geniale fa il paio con il racconto della carriera scolastica, un’avventura che accompagna tutti gli strappi della crescita dei protagonisti. Le oltre mille e cinquecento pagine della tetralogia saranno di certo tante altre cose insieme, ma sono sicuramente, e specificatamente, un “romanzo di scuola” nel senso che si dà all’etichetta per i libri ad ambientazione scolastica. Il rapporto conflittuale tra i sessi sempre oscillante fra desiderio e ripulsa, la maternità sognata, subita e respinta, la violenza domestica, cittadina e nazionale, sono tutti temi che i lettori della prima ora avevano trovato negli altri libri di Elena Ferrante, ma la centralità della scuola (che ne I giorni dell’abbandono è solo una sorta di botola teatrale dove appaiono e scompaiono i figli di Olga) è una novità della quadrilogia.
Dialogando sommessamente con chi esaltava i valori delle “tribù” regionali e vaticinava i disastri dell’omologazione culturale, veicolata non solo dai massmedia più dozzinali ma anche dalla scuola dell’obbligo, la saga di Lila e Lenù comincia proprio fra i banchi delle elementari per poi biforcarsi tra chi prosegue gli studi regolari (Elena) e chi va a coltivare la propria genialità altrove (Lila). L’epica del rione è una “banale” vicenda che si snoda tra il mercanteggiare non placido del piccolo commercio da un lato (salumerie, pasticcerie, calzolerie e camorre varie) e infrastrutture pedagogiche dall’altro: banchi, cattedre, biblioteca di quartiere. Lì si cambia il volto dell’Italia, qui la lingua che la racconterà.
Andrebbero tenute a mente le prime letture di Lila e Lenuccia: Piccole donne e Cuore. Quelli che hanno scaricato L’amica geniale come letteratura di serie B hanno in fondo visto giusto (la critica letteraria, insegnano tanti famosi critici, si regge su uno strano cocktail di visioni profonde e abbaglianti, meticolosa ricerca dell’ovvio e folgorazione dell’ottuso): nella quadrilogia, Ferrante esibisce un vecchio amore per i fotoromanzi e flirta segretamente con i libri per l’infanzia. Per giunta con quelli meno riabilitati dai critici adulti.
Se Piccole donne è il titolo amato e divorato da Lila, il libro che instilla il sogno di ricchezza contro la disdetta della povertà (“L’essere poveri è una cosa orribile”, sospira Meg guardando il suo vestitino logoro, all’inizio di quella che sarà la quadrilogia di Louisa May Alcott), Cuore è invece il testo che Lenuccia legge e riconsegna diligentemente entro la data stabilita. Come a Pasolini, anche a De Amicis spetta poco più di qualche citazione neutra. Eppure la mobilità sociale napoletana trova solo nella scala di valori della scuola una possibile alternativa alle gerarchie malavitose del rione. Elena lo capisce osservando l’indifferenza con cui il colto Nino Sarratore attraversa e sgonfia l’alone magico dei Solara durante il matrimono di Lila e Stefano Carracci.
Se il destino di Lila è di scomparire, quello di Elena è studiare. È Lila stessa a imporglielo, facendo a un certo punto le veci della figura materna, colei che all’amica garantisce la woolfiana “stanza tutta per sé” e i panini al prosciutto per merenda. La biforcazione delle loro strade rappresenta la dicotomia tra diligenza colta e intelligenza diffusa, di cui la Ferrante ha parlato di recente in un’intervista a Nicola Lagioia. All’alunna diligente non resterà che passare la vita a cercarsi il proprio posto al mondo attraverso la griglia degli archetipi scolastici di De Amicis. Lei e Lila sembrano a tratti il rifacimento di una rivalità tanto più interessante quanto forse trascurata dai lettori di Cuore: quella tra Franti e Stardi.
Franti è il cattivo che a metà del libro e dell’anno scolastico viene addirittura espulso e mandato, testualmente, “all’ergastolo”. Altro esempio di figura eternamente sovradimensionata sia nel vituperio che nell’elogio, gode di ampia rivalutazione dal 1962, anno del celebre Elogio di Franti, di Umberto Eco. Una riabilitazione rivolta ingiustamente contro l’autore di un libro che invece regge benissimo all’urto delle armi critiche più affilate. Di Franti Eco mette in risalto il carattere irriverente, la sua capacità di ridere del re, del grigiore scolastico e di una certa retorica bollata come protofascismo, tanto che ormai è diventato difficilissimo non schierarsi contro la scuola bacchettona di De Amicis e della legge Coppino, prima a istituire in Italia la scolarità gratuita e obbligatoria.
Stardi invece ha sempre riscosso meno entusiasmi, perché è un ragazzo a metà fra lo sgobbone ottuso e il genialoide ritardato dalla bassa estrazione sociale. Essendo umili ma non poverissimi, privi inoltre dell’immancabile corredo di ordinaria violenza che spesso si accompagna alla povertà più nera, gli Stardi sono gente che ha preso la sfida dell’istruzione obbligatoria come una seria opportunità di riscatto. Il piccolo infatti ama leggere, vanta una discreta collezione di libri e si è fatto regalare dal padre uno scaffale in legno dove conserva i volumi rilegati con copertine colorate. Prassi a metà fra il piccolo borghese e il piccolo Borges, cioè di chi tratta i libri come accessori d’arredamento, ma anche come farebbe un bibliotecario conscio che la prima forma di critica letteraria sta nell’organizzazione di una biblioteca.
Eco arrivava a vagheggiare un Cuore scritto da Franti, l’escluso. Ma è un libro impossibile, perché il ghigno di Franti polverizza anche quelli che prendono sul serio i libri in cui si prendono sul serio i Franti che sghignazzano e tutti gli incunaboli di Aristotele sulla Commedia per cui Guglielmo da Baskerville si farebbe abbrustolire vivo. Solo i secchioni come Stardi o Elena Greco (o Eco) possono sperare di riuscire a scrivere un giorno un libro che ci dica dove vanno a finire i Franti quando spariscono. In fondo anche quella finale di Lila è una scomparsa lenta che inizia con l’abbandono scolastico. Elena invece diventa una scrittrice famosa e benestante grazie al desiderio di emulazione nato sulle pagine di Piccole donne. Tuttavia, senza “cuore”, sarebbe una “piccola donna” e la sua letteratura un modo come un altro per far soldi se non contenesse un po’ dei rovelli di De Amicis: "Se il genio che Lila aveva espresso da bambina con la Fata blu, turbando la maestra Oliviero adesso, in vecchiaia, sta manifestando tutta la sua potenza? In quel caso il suo libro sarebbe diventato – anche solo per me – la prova del mio fallimento e leggendolo avrei capito come avrei dovuto scrivere ma non ero stata capace. […] L’intera mia vita si sarebbe ridotta soltanto a una battaglia meschina per cambiare classe sociale" (Storia della bambina perduta).
C’è un breve testo che in qualche modo ridimensiona l’elogio di Franti e guarda caso rialza le quotazioni di Stardi. Scritto quando Elena Ferrante era agli esordi, di lei si sapeva nulla e s’indagava poco, quel testo del ‘93, riletto oggi, rischia di cadere nel gran polverone indiziario recente, perché è firmato Domenico Starnone: l’introduzione all’edizione Feltrinelli di Cuore. Potete pensarlo, se vi va, scritto a quattro mani con la moglie o frutto di sfoghi coniugali sul tavolo del soggiorno a correggere i compiti del quadrimestre, di certo appartiene a qualcuno che conosce la prima linea scolastica meglio di Eco e si guarda bene dallo sparare certezze sulla bontà dei cattivi (parole tutte virgolettabili a vostro piacimento).
Intanto Starnone ricorda di aver pianto e riso sulle pagine di Cuore, mentre oramai tutti fingono di averne sempre e soltanto riso. Ammette di essersi rivisto in Stardi e ipotizza un’identificazione tra il ragazzino che collezionava libri e lo stesso De Amicis, ritratto con un libro in mano nel frontespizio dell’edizione da lui posseduta. Naturalmente quella sognata da questo Starnone/Stardi – cresciuto e diventato a sua volta prof, poi autore di articoli, libri e sceneggiature di successo sulla vita scolastica (tutto sommato “l’exercise a été profitable, Monsieur Coppino”) – è una scuola capace di salvare i Franti senza buttare a mare certi valori che il ragazzo deride e l’istituzione, sia pure con qualche rigidità e goffaggine, deve promuovere. Insomma tra Franti e Stardi si resta scissi, divisi, spezzati. Appunto franti, con la minuscola.
In Cuore lo stallo etico attorno alla rivalità fra i due mostra una complessità lievemente superiore alle semplificazioni postume dei frantiani, sebbene adattata all’altezza dei piccoli protagonisti. Poiché anche l’antieroismo ha i suoi codici, c’è un dettaglio enorme su cui Eco preferisce glissare. La tensione tocca il punto di non ritorno quando Stardi accusa Franti di aver frantumato un vetro. Franti fa la sassaiola sulla scuola dei lavoratori, Stardi fa il delatore, ma per evitare che ne vada sotto un innocente. Dopodiché Franti non viene espulso per un ghigno di troppo, ma per un agguato alla sorella del suo accusatore. A voler decuplicare la portata tragica della baruffa scolastica si direbbe, nel gergo del clan dei Solara, una vendetta trasversale.
Eco invece elaborava persino un teorema quasi degno dei teoremi giudiziari che anni dopo avrebbero mandato in galera, con l’accusa di terrorismo, varie specie di fiancheggiatori (e oggi, a volersi allargare, hanno riempito Guantánamo di musulmani di vario ordine e grado di devozione). Immaginava infatti, con lo stesso determinismo sociologico rinfacciato a De Amicis, che uno come Franti sarebbe un giorno andato a sparare, come l’anarchico Bresci, al re Umberto I. È il classico errore che a Napoli conoscono da secoli e che De Amicis sospetta perfino lassù a Torino (non a caso sottolinea l’alleanza trasversale tra Franti e lo spocchioso aristocratico Nobis). L’equivoco sta nel credere beatamente di avere i lazzaroni come compagni di strada, per poi scoprire che a quelli il re piace assai e al patibolo ci mandano li giacubini.
Nella tetralogia gli amici del rione e i compagni di scuola reagiscono ciascuno a suo modo all’esplosione politico-ormonale degli anni ‘60: ci sono i fascisti e i comunisti, gli operai e i camorristi, i corrotti e i terroristi, gli sposati e i femminielli, i sopravvissuti e i morti uccisi. E il punto di vista è sempre quello di chi non ha resistito a chiedersi che fine abbia fatto la scolaresca di un tempo, pur sapendo che una risposta a priori non esiste, sarebbe come attribuire un’opera a un autore anonimo. Il linguaggio binario dei calcolatori elettronici non serve a scrivere romanzi, spiega Lila, che con Enzo ha appena scoperto l’informatica, a Elena, che sta per pubblicare il primo romanzo. “Stava reagendo spiegandomi di fatto che non avevo vinto niente, che al mondo non c’è alcunché da vincere” e che tutto si riduce a 0-1, sì-no, esserci-non esserci. Ma mentre Lila le parla così, sfottente, Elena vede solo lo sforzo insonne di due operai che studiano di notte in una casa povera, col bimbo di là che dorme. È ciò che la Ferrante, nella stessa intervista a Lagioia, chiama “ansia permanente dell’intelligenza”.
L’epilogo è dedicato a Pasquale, il muratore comunista dotato di un’intelligenza a suo modo pasoliniana delle cose, di chi sa ma non ha le prove e le cui accuse rischiano di cadere nel vuoto dei deliranti. È passato alla lotta armata e sta scontando una lunga detenzione. Elena va a visitarlo in carcere, dove si è laureato, ed è sfottente pure lui: "Se sapevo che per prendere un diploma e una laurea bastava avere tempo libero, star chiuso in un posto senza preoccuparsi di guadagnarsi la giornata e disciplinatamente imparare a memoria pagine e pagine di qualche libro, l’avrei fatto prima".
È la sua accettazione tardiva di una diligenza colta contro l’intelligenza ansiosa. Un destino da Stardi, ma all’ergastolo di Franti.