Un figlio imperfetto, nato sotto cattivi presagi da una madre erede di una stirpe di indovine, dominata da dicerie e misteri, senza mariti a dare nome o famiglia. Donne che nel seicento trovarono rifugio nel minuscolo borgo siciliano di Lenzavacche, dopo essere state bollate come corruttrici e istigatrici del demonio.
Felice si chiama il bambino, a dispetto della vita da infelice a cui sembra destinato. E se non sarà felice nel senso che di solito si attribuisce alla parola, avrà, almeno, i suoi diritti, primo fra tutti quello di andare a scuola. Pur handicappato, pur figlio di una «signorina» considerata mezza strega, pur nella Sicilia fascista del 1938 fondata sul mito della fisicità e della salute propagandato da Mussolini. Ci riuscirà perché così vuole sua madre Rosalba, che cerca e trova una normativa dimenticata per consentire di essere ammesso in classe a quel figlio concepito con un arrotino dall'inflessione colta che tiene libri nella sacca dei coltelli e ha le mani ombreggiate di inchiostro. Perché così vuole sua nonna tilde, che gli prepara tisane di camomilla e cardamomo per il sonno, di aloe e valeriana per la fantasia, ed è convinta che le mancanze del nipote siano in realtà dei benefici. Così vuole il farmacista, dutturi Mussumeli, amico di Tilde ed erborista, secondo il quale la normalità è solo questione di "postazione" e "varia a seconda della trincea dietro la quale ci acquattiamo".
Fonde leggenda, saga, diritto Le strghe di Lenzavacche (E/O) della siracusana Simona Lo Iacono, magistrato a Catania che racconta una storia di superstizione e giustizia che dal Seicento arriva fino agli anni Cinquanta. Lo fa con vaghe atmosfere da realismo magico e argomentazioni in punta di diritto, alternando il racconto in prima persona della madre e le lettere a una zia (l'identità della quale si scoprirà soltanto alla fine) di Alfredo, maestro elementare che con l'allievo disabile arriva al numero minimo necessario per tenere la classe che altrimenti verrebbe cancellata.
Due storie che procedono in parallelo fino alla fine, dove tutto si spiega nell'appendice che contiene un testamento redatto nel 1699, in cui l'autrice riproduce, con efficacia, la lingua dell'epoca. Le streghe di Lenzavacche parla di emarginazione, di giustizia ma anche del potere di "raccontare storie". Lo Iacono tiene insieme tutto con una scrittura che ammicca a un certo esotismo siciliano, che usa con parsimonia i dialettismi e a cui talvolta nuove una ricerca di letterarietà che produce espressioni come «petto rapace», «glutei arroccati», «rupi che scoscendono dal corpo», «buio ossuto». Più controllate le lettere del maestro dove trova posto, bene evocata, l'espressione di un dolore indefinito che viene da lontano. Particolarmente riuscite infine le descrizioni del piccolo Felice e dei tentativi di esprimersi nonostante la grave disabilità, attraverso una sorta di alfabeto-giostrina azionata dagli sputi che gli costruisce il farmacista e che diventa simbolo di riscatto.