“Il mondo è un libro, e chi non viaggia ne legge solo una pagina”, sentenziò San Agostino, ed il nuovo romanzo di Simona Lo Iacono (Le streghe di Lenzavacche, ed. e/o) è semplicemente la rappresentazione di un viaggio, quello dentro se stessi, nelle viscere della nostra anima, per conoscerci e per comprendere meglio gli altri.
Ed è un viaggio faticoso, doloroso, misterioso, un viaggio mistico e magico, un viaggio comunque, rivelatore.
“Solo raccontandomi esisto veramente, solo scrivendo mi vedo e mi raccolgo, un atto pietoso, il mio, di reduce, di condannato, di imputato e vittima. Tutto sono e in tutto mi scopro, ma solo se mi scrivo e mi rivelo, solo se lascio che questa umanità ingenerosa e affaticata affiori come il sangue”.
È questo, un racconto ambientato nella calda terra siciliana, così mistica e così magica, in un piccolo paesino, Lenzavacche, frazione di Noto, nel 1936, in pieno regime fascista, ma è una storia le cui radici ci riportano al 1600.
È in questo periodo, infatti, che nacque una piccola comunità di donne reiette, sventurate, rifiutate dalla società, ripudiate, ragazze madri, che invece di affogare la loro condizione sociale nel silenzio della solitudine, decisero coraggiosamente di unirsi, di divenire l’una la forza delle altre, di sostenersi ed aiutarsi vicendevolmente, combattendo i pregiudizi di una società che le aveva già condannate senza appello.
E lo fecero costruendosi questa loro piccola comunità, e per questo furono giudicate e condannate per stregoneria.
Discendenti di questa comunità di streghe sono le protagoniste del racconto di Simona Lo Iacono: Tilde e sua figlia Rosalba. Donne sole, lontane dalla vita cittadina, scacciate dalla società, invise a tutti, considerate strane, folli, streghe, appunto, degne discendenti di quelle streghe che secoli prima abitavano a Lenzavacche.
Una condizione, questa, che, però, non pesa troppo sulle due coraggiose donne, che affrontano la vita quotidiana con fierezza, l’una proteggendo l’altra. Una condizione che non muta neanche quando nasce Felice, il figlio della colpa, secondo la convinzione popolare, perché nato fuori dal vincolo matrimoniale, figlio dell’amore sublime per Rosalba, frutto dell’unione di due anime gemelle, condannate dal destino, ad incontrarsi.
Ma Felice è un bambino con gravi handicap motori e di linguaggio e questo spaventa ancora di più la comunità bigotta di Lenzavacche, che lo definiscono un mostro, la giusta punizione per una strega e per il suo amore immorale.
“Cominciarono le bisbigliate all’angolo, i segnali da sempre decifrabili dell’emarginazione”, ma ciò non preoccupò Rosalba, che ostinatamente non precluse la gioia della vita al piccolo Felice, non lo rinchiuse in casa, per paura o vergogna.
Ed il piccolo Felice, nonostante la sua condizione difficile, amava la vita, voleva respirarla, e ciò spingeva sua mamma a portarlo in paese, nonostante gli sguardi feroci e pieni di cattiveria di chi li incontravano, nonostante le loro perfide lingue piene di saccente, falsa, verità morale, intrisa di un sordo perbenismo.
“Ovunque si faceva il vuoto, Felice. A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e, inesorabilmente, ti lasciava indietro”.
Solo l’amore delle due donne, di mamma Rosalba e di nonna Tilde, con le sue erbe, le sue preghiere ed invocazioni, solo le loro cure, la loro dedizione riuscirono a rendere quasi normale la vita di Felice.
Una storia, la loro, che si intreccia con quella del Maestro Mancuso, giunto a Lenzavacche per lavoro, ma anche per cercare se stesso, le sue origini, per sciogliere i molteplici dubbi che serbava nel suo animo.
Un maestro che preferiva la fantasia alla grigia disciplina, preferiva la cultura, quella vera, onnivora ed affamata, alla conoscenza utile solo al vivere quotidiano; una volontà che lo pose in una posizione scomoda, in bilico tra il restare nel piccolo paesino o l’essere allontanato, poiché mal si adattava al sentimento fascista, al suo insegnamento, a quel senso di obbedienza e disciplina che il regime fascista voleva impartire.
Aveva una sola possibilità per restare: formare una classe di dieci alunni, quando lui ne aveva solo nove, e nessuno voleva mandare il proprio figlio a lezione da un maestro cosi poco convenzionale alle regole del tempo.
Sarà Felice il decimo alunno tanto cercato, lui così desideroso di apprendere le conoscenze, nonostante la disabilità, e nonostante le convenzioni dettate dal periodo fascista, che esaltava la perfezione fisica e mentale, discriminando le persone con handicap, visti come mostri da nascondere, non da ostentare.
Sarà questo loro incontro ad unire le due storie, ad incrociare i destini dei protagonisti, disvelando, pian piano tutti quegli arcani misteri che si portano dentro.
E tra i protagonisti di questo meraviglioso racconto, c’è certamente, la cultura, ci sono i libri, il vero strumento del destino.
Sono i libri, infatti, a far incontrare Rosalba con l’arrotino, a trasformarli in amanti, l’unione perfetta di due anime gemelle; sono i libri lo strumento che utilizza Rosalba per far conoscere la vita, il mondo al piccolo Felice, incapace di esprimere parole, ma affamato di conoscenza.
Sono i libri, i racconti, le favole lo strumento che utilizza il Maestro Mancuso per insegnare ai suoi alunni, perché sa che il potere della fantasia può liberare ogni individuo dagli schemi e dalle schiavitù di una società formale, inquadrata, rigida, statica.
“I miei libri sono creature vive, sporche e sobbalzanti come un gatto di strada”, sono elementi vivi, logorati dall’esperienza della vita, elementi funzionali allo svolgere della narrazione.
“Coltivo questa idea oltraggiosa che la letteratura possa fungere da corazza, che sia la coltre dei cento nodi, il manto del re nudo”.
La cultura, la letteratura, la conoscenza riescono a superare le barriere sociali, a rompere le diffidenze tra mondi diversi, a permettere al piccolo Felice, nonostante il suo grave handicap, di scoprire, di conoscere, di vivere la vita, la realtà che lo circonda.
Le streghe di Lenzavacche di Simona Lo Iacono, è un racconto godibilissimo, un romanzo che si deve semplicemente assaporare, gustare, con famelica fame di conoscenza, seguendo il suo ritmo incalzante, lasciandosi travolgere dallo scorrere delle vicende dei suoi protagonisti, vittime e carnefici di un destino mistico, che affonda le sue radici nel lontano 1600, tra presunte streghe e l’Inquisizione, e catapulta il lettore in pieno regime fascista.
Un romanzo per soli “lettori voraci”, quelli che amano spendere il loro tempo “a inseguire le storie”.