Grandi misfatti e piccole miserie e dell'Italia coloniale
L'intreccio di verità storica e invenzione letteraria che caratterizza Il bel tempo di Tripoli (edizioni e/o) é facilmente districabile, stando alla testimonianza dell'autore, Angelo Angelastro, glornalista del Tg1 passato per l'occasione alla narrativa. La verità storica è rappresentata dall'incontro con un anziano avvocato di Bari che accetta di raccontare, molti anni fa, le incredibili peripezie di cui è stato protagonista ai tempi del fascismo e dell'avventura coloniale in Africa, prima in Etiopia e poi in Libia. Una lunga serie di conversazioni registrate su audio cassette, accantonate per anni, forse anche per l'incertezza dell'intervistatore sul carattere di quella testimonianza e sul modo migliore di tradurla in libro. Di qui la decisione, dopo la scomparsa dell'avvocato, di dare a quei racconti, chissà quanto romanzati dal loro esuberante narratore, la formula del romanzo.
Questa dunque la distinzione fondamentale, il confine tra verità e finzione, stando a quanto l'autore stesso scrive nel prologo, che è però pur sempre un pezzo del romanzo. O meglio, del duplice romanzo. Quello del testimone-affabulatore e quello del glornalista-scrittore, da cui emerge, paradossalmente, un racconto scarno, tutto fatti, anche e soprattutto quando la realtà che descrive sfiora il grottesco. Grottesca era del resto l'idea stessa dell'Impero, e i suoi protagonisti lo scopriranno presto sulla propria pelle. A cominciare da quell'insegnante elementare che non inveiva, come tutti gli altri, contro il Duce o contro il re, bensi contro Emilio Salgari, inventore di quei personaggi che aveva voluto emulare e dunque primo responsabile del suo cragico errore. Tra un bombardamento con l'iprite e un assalto alla baionetta, ai soldati poteva capitare di passare un guaio per indebita appropriazione di qualche pannocchia trovata vicino all'accampamento dove erano rimasti tagliati fuori dal rifornimenti. Ragion per cui alcuni saranno duramente redarguiti e multati, in seguito alla denuncia di un anonimo contadino. «Che strana genia dl conquistatori eravamo! Sembrava quasi che dovessimo diventare padroni dell'Etiopia ma di nascosto. Alla chetichella».
Il puntuale resoconto di una realtà simile a una gigantesca messinscena si fa sempre più paradossale nella testimonianza di questo singolare ex fascista, che parte volontario per partecipare alla costruzione dell'Impero giurando alla moglie di non fare male ad alcuno, se non per legittima difesa. E che si troverà davanti personaggi come il camaleontico Curzio Malaparte, mezzo prigioniero e mezzo ospite di riguardo, o come il fascista della primissima ora che all'indomani del patto Molotov-Ribbentrop correrà ad arringare gli operai venuti dall'ltalia, più o meno spontaneamente, per edificare dal nulla le imperiali infrastrutture africane. Un comizio in piena regola sulla grandezza dell'alleato sovietico tenuto dal Comandante della Milizia, al termine del quale sarà portato fuori in trionfo dagli operai al grido di «viva Stalin!». Una scena che sarebbe stata benissimo in un romanzo di Antonio Pennacchi, ma che appartiene con ogni probabilità alla pura verità storica, più romanzesca di ogni romanzo.