In un passo del mio nuovo romanzo “Le streghe di Lenzavacche”, edizioni e/o faccio dire ad uno dei miei personaggi (il maestro Alfredo Mancuso):
“… solo raccontandomi esisto veramente, solo scrivendo mi vedo e mi raccolgo, un atto pietoso, il mio, di reduce, di condannato, di imputato e vittima.
Tutto sono e in tutto mi scopro, ma solo se mi scrivo e mi rivelo, solo se lascio che questa umanità ingenerosa e affaticata affiori come il sangue. Poi poso la penna e contemplo le tracce che l’inchiostro ha lasciato sulle dita.
Ferite sembrano, come quelle di Giona“.
Ecco… scrivere e raccontare storie è questo per me: rivelazione.
La scrittura ci conduce infatti in uno dei viaggi più appassionanti che l’essere umano possa compiere, quello dentro se stessi e quello negli altri. È un viaggio sempre diverso, sempre imprevedibile, sempre audace. Mille volte ho immaginato che quando Dante parla di Ulisse all’imbocco dello stretto di Gibilterra, pronto a immettersi in un oceano nuovo, e fuori dai confini del conosciuto, non stia descrivendo tanto la sete di avventura dell’eroe di Itaca, quanto il tuffo nell’esperienza letteraria, quell’entrare dentro l’uomo per narrarlo, riemergendone nuovi e stupefatti, incisi di segni, fatiche, ferite.
Da questa mia convinzione sul potere spirituale e cognitivo della scrittura nasce anche il mio nuovo romanzo: “Le streghe di Lenzavacche”. Qui la scrittura assurge ad atto di condivisione per eccellenza, perché la scoperta (sempre imperfetta) su se stessi e sugli altri, non può che trasformarsi in compassione, nel senso etimologico della parola: “cum patior”, patisco con te, e con te sono solidale, con te piango, con te rido, con te vivo, perché con te condivido il mistero che ci avvolge tutti, l’esperienza umana.
Le mie “streghe” fanno appunto questo, ed ecco perché sono le letterate per eccellenza. Si aggregano, si danno reciproco sostegno, crescono le une i figli delle altre. Sono donne che, per vari motivi, sono state espulse dalla vita sociale del 1600. Mogli abbandonate, figlie reiette, donne perdute, o semplicemente erboriste fraintese per la loro capacità di miscelare erbe. Sono le “escluse”, “le dimenticate”, le “ultime” per eccellenza. Ma nel gruppo trovano forza, comprensione, condivisione.
Iniziano quindi a vivere una esperienza comunitaria. Si consacrano e vivono in castità. Allestiscono una piccola scuola all’interno della propria casa in cui insegnano ai propri figli a leggere, a scrivere, ad amare l’arte della fantasia.
Il loro spirito mansueto e, al tempo stesso, visionario, resisterà per molti secoli….fino a manifestarsi in altre due donne, Tilde e Rosalba, le ultime streghe di Lenzavacche, vissute nel 1938, in pieno regime fascista.
Rosalba è la mamma di un bimbetto disabile ma vivacissimo, e con la madre Tilde inventa per lui marchingegni portentosi per l’epoca che hanno la funzione di regalargli movimento, parola, felicità.
Sono donne abituate alla fatica, alle difficoltà, alle intemperie del destino, ma non si fanno scoraggiare. In ogni impedimento scovano una opportunità, e in ogni avversità sanno leggere le tracce invisibili e generose della provvidenza. Insomma, sono argute e sognatrici. Due vere discepole del potere benigno dell’immaginazione.
Ecco un passo del libro in cui Rosalba parla e racconta al figlioletto Felice le grandi difficoltà per inserirlo nella vita del paese:
“Ovunque si faceva il vuoto, Felice. A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e – inesorabilmente – ti lasciava indietro. E dire che tu l’amavi pazzamente, che eri come un predestinato a goderla nel suo senso più profondo, nascosto, e senza dolore. Perché mentre loro – i ben accetti alla vita – macchinavano, e si impossessavano, e dominavano, e armeggiavano per tutto il giorno in preda a voglie arcane, misteriose, a equilibri sani o malati, a desideri disperati, maliziosi o innocenti, tu stavi lì quieto e concentrato nello sforzo di un respiro. Ingoiavi il tuo filo d’aria soddisfatto d’aver portato a termine una simile impresa, cibarti di quel poco che ti ci voleva per stare al mondo, e ti costava sforzo, ma con lo sforzo ti immetteva anche in quel cerchio respingente e tuttavia inatteso, al quale continuavi a sorridere indomito, come un eroe negletto, come un trampoliere senza assi, come un innamorato respinto che non intende rinunciare all’amante”.
L'autore: Simona Lo Iacono
Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato, presta servizio presso il tribunale di Catania. Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”. Il suo primo romanzo, Tu non dici parole’ (Perrone 2008), ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa. Nel 2011 ha pubblicato ‘Stasera Anna dorme presto’ (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo ‘Effatà’, vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura. Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome ‘BUC’, trasmissione che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale del quotidiano La Sicilia la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”. Presta inoltre servizio presso il carcere di Brucoli come volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.