Nella prefazione a Undici solitudini di Richard Yates – libro che raccoglie, appunto, undici racconti dello scrittore americano – Paolo Cognetti scrive:
Nonostante le differenze tutti i racconti possiedono una voce, la stessa voce, e impressionano per come compongono un progetto organico: è lo sguardo sul mondo che rende tante storie diverse un solo libro, e trasforma protagonisti estranei nei personaggi di un unico universo. Il progetto è la declinazione, un racconto dopo l’altro, della parola “solitudine”.
Sono due mesi, quasi tre, che io leggo solo racconti. Lasciando da parte l’intera opera di Raymond Carver che ho riletto tra Natale e i giorni della merla, queste sono le voci a cui ho consegnato la narrazione della mia America negli ultimi tempi.
Più tardi nel pomeriggio - Grace Paley New York Stories - AA.VV. Undici solitudini - Richard Yates I racconti - Truman Capote Tutti i racconti - Flannery O'Connor L'innocenza delle caramelle - Tennessee Williams Il barile magico - Bernard Malamud Il suo vero nome - Charles D'Ambrosio
Voci diverse, alcune parecchio lontane altre più vicine, alcune crudeli altre di una poesia da non riuscire a resistervi, voci tristi e divertenti, voci dalla finestra, voci uniche. Voci di chi?
Da New Orleans a Seattle, dal Bronx ai sobborghi del Connecticut, dai grattacieli di Manhattan alle cicale della Georgia passando per le discariche di Brooklyn e un vicolo cieco di Saint Louis, le mie voci americane sono Truman Capote, Tennessee Williams, Grace Paley, Flannery O’Connor, Charles D’Ambrosio, Bernard Malamud, Don DeLillo, Richard Yates e una manciata di altri grandi maestri della short story americana, atemporalizzati nella mia immaginazione e messi uno di fianco all’altro a formare un unico coro. Messi in formazione uno di seguito all’altro da est a ovest o da sud a nord a formare un’unica, disordinata e galattica mappa: tradendo in ogni loro intonazione e timbro l’appartenenza alla propria terra, le mie voci americane raccontano nella loro singolarità un mondo diverso, nel loro insieme un “unico universo”.
Non so se basta questo a spiegare – quando ce lo chiedono – perché è bello leggere racconti. Di sicuro si potrebbe dire che un coro con tante voci e tante canzoni è più generoso di un cantante solitario con un repertorio uniforme che, abituato a stare da solo, non sempre canta per te. In una raccolta di racconti cantiamo noi lettori – quando finita una lettura ci fermiamo nel silenzio per iniziarne subito dopo un’altra e riempiamo quel silenzio di attesa e curiosità – e cantano per noi i personaggi – che iniziano e terminano la loro vita nel giro di un’ora al massimo e ci lasciano in ricordo un’eco più o meno forte a seconda di quanto accordata era la loro voce rispetto alle nostre vibrazioni interiori. Nell’unico universo delle loro voci, in più, si intersecano molteplici sguardi e infinite traiettorie, si incrociano sentimenti e solitudini, si scontrano destini, si creano spazi. E allora l’unico universo possiede anche – dicevamo – una mappa.
1. parole chiaveUna giovane con un cappotto verde fissa il cielo notturno su un balcone di New York e vi vede i fantasmi del passato che la rincorrono dal sud: gli stessi fantasmi sognati dal suo amante ancora a letto (Il falco senza testa, Capote), fantasmi che hanno la forma di un pappagallo su una camicia gialla di un padre di famiglia appena ucciso in un campo assolato insieme al figlio, fantasmi nelle parole di un’anziana rivolte a un dio che è girato dall’altro lato (Un brav’uomo è difficile da trovare, O’Connor). Il cappotto verde è una macchia di colore dai finestrini di un bus diretto in periferia, la macchia di colore è uno spettro d’abbandono e violenza, uno spettro è un angelo: Dio resta sempre girato dall’altro lato ma allora Dio è una bambina riscattata in morte da una visione metropolitana (L’angelo Esmeralda, DeLillo) o un “negro” in una sala da ballo di Harlem (Angelo Levine, Malamud). Nessuno dei due accoglie le confessioni di chi è solo e disperato, ma del resto non lo fanno neanche i veri sacerdoti: il confessante lascia la vita da una cella della Louisiana con troppi debiti di sentimenti e il confessore non ne scioglie neanche l’ultimo prima che quello muoia (L’Apollo monco, Williams) o, molto più spesso, non è la religione che accompagna l’uomo verso la confessione, ma lo fanno l’alcol, la disperazione, l’abbondanza affogata nel nulla dell’io e nei flutti oscuri del proprio orizzonte (La Punta, D’Ambrosio). 2. american mind mapsUn orizzonte che si staglia sconosciuto e pauroso da un altro balcone di New York, forse contiguo a quello della giovane inseguita dal passato, dove ci sono fiori ma da dove non si vede il sole né – neppure qui – il futuro (Ansietà, Paley). Non che, per nessuno di loro, il presente sia più rassicurante: spesso, in un altro verde, quello del giardino di casa, tra il vialetto che porta al garage e l’altro che conduce al portico, “oggi” è una settimana che va dalla domenica al giovedì a casa con la moglie, il venerdì con gli amici, il sabato al cinema, la domenica a messa. E “oggi” dura per sempre, anche quando non dura più (Il mitragliere, Yates).
Durante l’ultima lezione del mio corso Told in the USA dedicato al racconto americano ho fatto disegnare una mappa dell’America, chiedendo ai partecipanti di mettervi al centro non il Kansas come vorrebbe la geografia ma un concetto, una parola, un’idea tra le tante che avevamo incontrato sulle pagine degli scrittori selezionati. Ognuno ha abbozzato la sua, con frecce, tratti colorati e associazioni d’idee, e io vi ho appena raccontato la mia.
Ogni mappa è un coro diverso. Ogni mappa è un’America unica, un “universo unico” in cui, in mezzo a echi e declinazioni narrative, risuona anche la nostra voce.