Elena Ferrante, la più misteriosa tra le scrittrici italiane, è tra i candidati al Man Booker Prize. Grazie a Storia della bambina perduta, quarto libro della saga del L'amica geniale, edizioni e/o, è entrata nella rosa dei 13 finalisti del prestigioso premio inglese. Prima di lei, tra gli autori italiani l'onore era toccato solo a Antonio Tabucchi e a Dacia Maraini. La combriccola dei ferrantiani è vivace anche all’estero, specie negli Usa. Qui l’autrice è mirabilmente tradotta per i tipi di europa editions, costola di e/o, da Ann Goldstein (per inciso, ha imparato l’italiano leggendo la Divina Commedia). Tra i fan, anche Gwyneth Paltrow, James Franco e il regista John Waters.
In attesa di sapere chi vincerà (il 14 aprile si conosceranno i sei nomi della shortlist, il 16 maggio il vincitore), riproponiamo un'intervista esclusiva di Elle a Sandra Ozzola, fondatrice con il marito Sandro Ferri, di e/o. E anche il pensiero sull'opera di Elena Ferrante di alcune tra le scrittrici più affermate della scena letteraria internazionale.
Capita raramente, ma capita. Di arrivare all’ultima riga di un libro molto amato e di sentirsene subito orfane. A me è successo da poco con L’amica geniale, Storia del nuovo cognome e Storia di chi fugge e di chi resta, la trilogia di Elena Ferrante che è in realtà un unico grande romanzo (e/o la casa editrice). Tutto inizia da due bambine legate a filo doppio, Elena e Lila, in un rione povero di Napoli, alla fine degli anni Cinquanta. Fai la loro conoscenza e intuisci subito che ti cattureranno, ti inchioderanno, per non lasciarti andare mai più. Che stupore. Che meraviglia. E che senso di smarrimento, dopo. Un groviglio di emozioni forti. Inizi a dibatterti tra sentimenti opposti: la gratitudine eterna verso l’amica, il libraio, il passaparola che ti hanno messo in mano la storia di Elena e Lila, le amiche-nemiche geniali. E l’invidia profonda verso chiunque debba ancora leggerla: a partire dalla vicina di metropolitana, immersa nel primo volume, più o meno a metà. Lei sì che ha davanti ore e ore di pura estasi. Poi, inaspettatamente, ti salva il quotidiano che stai sfogliando di malavoglia. Pagine culturali, notizia bomba: non tutto è perduto, ci sarà il quarto libro dell’Amica geniale, l’autrice sta revisionando le bozze, in novembre sarà in libreria (il giorno 5 per esattezza). Ora, per una giornalista, l’urgenza è: ci vuole un’intervista, subito, prima che la facciano gli altri. Ma come sanno tutte le lettrici-groupie di Elena Ferrante, Elena Ferrante non esiste. Non in senso assoluto, ovviamente: non esiste per le Tv, i magazine, i blog letterari, i tour promozionali, twitter, facebook ecc ecc. Ha deciso nel ’92, prima di dare alle stampe la sua prima opera, L’amore molesto, di non comparire mai con il suo volto, la sua voce, il suo vero nome.
Ecco cosa scrisse allora a Sandra Ozzola, fondatrice con Sandro Ferri di e/o: «Non intendo fare niente per L’amore molesto, niente che comporti l’impegno pubblico della mia persona. Ho già fatto abbastanza per questo lungo racconto: l’ho scritto; se il libro vale qualcosa, dovrebbe essere sufficiente. Non parteciperò a dibattiti e convegni, se mi inviteranno. Non andrò a ritirare premi, se me ne vorranno dare. Non promuoverò il libro mai, soprattutto in televisione, né in Italia né eventualmente all’estero. Interverrò solo attraverso la scrittura, ma tenderei a limitare al minimo indispensabile anche questo. Mi sono definitivamente impegnata in questo senso con me stessa e con i miei familiari. Spero di non essere costretta a cambiare idea». È l’inizio de La frantumaglia, un tascabile che raccoglie i rari rapporti epistolari tra Elena Ferrante e il mondo esterno. Inteso come giornali, registi, radioascoltatori, saggisti che hano potuto intavolare una discussione con lei. Pochi e selezionati, va da sé. C'è grande generosità nelle risposte, alcune così lunghe e articolate da risultare inediti in piena regola. Insomma, è un testo fondamentale, e “frantumaglia” è parola essenziale della poetica ferrantiana: leggetelo al volo se davvero amate Elena.
Io invece mi limito a un modesto “uno-più uno”, e chiedo un appuntamento telefonico a Sandra Ozzola. Per un motivo elementare: insieme a Ferri è l’unica a sapere davvero qualcosa di fondato sull’identità della scrittrice. E, da fidata depositaria di questo non piccolo segreto, l’unica a poter “dire”. C’è qualcosa di più dolce, per gli innamorati, del sentir parlare dell’oggetto del loro amore? «Buongiorno signora Ozzola, cosa ci può raccontare dell’ultimo volume in uscita, Storia della bambina perduta?». Mi risponde una voce vivace, con un’invitante sfumatura di simpatia. «Sicuramente, che la storia finisce, me lo chiedono tutti con un filo di ansia: oddio, non è che resta incompiuta? Finisce ed è intensissima, estremamente ricca, anche dolorosa, riguarda lo sviluppo e la crisi dell’amicizia di Elena e Lila. È ancora ambientato in parte a Napoli, con scene potenti, come quella del terremoto (anticipata su la Repubblica del 9 giugno, ndr): secondo me è da antologia scolastica del futuro, se ancora esisteranno le antologie, ragazzi e ragazze dovrebbero studiarla ». Anche i maschi? Ma la scrittura di Elena non è “femminile”? «No, anche gli uomini la leggono, meno di noi, è vero, ma ci sono fan club di lettori sfegatati. Specie dell’Amica geniale, dove la dimensione claustrofobica dei primi lavori della Ferrante, mi riferisco soprattutto a I giorni dell’abbandono e a La figlia oscura, si stempera nel respiro più classico e lungo del romanzo popolare». Riflettiamo insieme sui temi ricorrenti della mistica ferrantiana: in particolare sulla perdita del sé, Lila la chiama “smarginatura”, a volte un andare in pezzi violento, come se il magma incandescente della personalità non si tenesse più insieme; altre, invece, un’esplosione di genialità, uno tsunami interiore che non si spiega. Accade, e rende lo stile della nostra autrice ipnotico, irresistibile.
«Anni fa, una famosa editor di Milano disse dell’Amore molesto: non posso continuare a leggerlo, è troppo carnale e violento. La forza di Elena Ferrante è la capacità di affrontare dinamiche a noi tutte familiari con sincerità totale. Come se le svelasse per la prima volta, anche quando fanno male. Quante volte l’amicizia tra donne è ridotta a rivalità pura o elevata a vicinanza poetica? Qui c’è tutto. Momenti di tenerezza estrema, Elena che aiuta Lila a vestirsi per il matrimonio, la lava, la pettina... e altri dove se ne dicono di tutti i colori, senza pietà». Il dolore, il colpo di scena che ti attanaglia il cuore non sono mai “decorativi”, ma vitali, centrali. In questi libri non esistono episodi periferici, di contorno. «Ecco perché la scrittrice, chiunque essa sia, non avrebbe mai potuto scrivere “questi” libri mostrandosi», conclude Sandra, anticipando la mia - ovvia - domanda sull’identità di Elena Ferrante. «Proprio per la delicatezza dei temi, e per come li affronta, è difficile esporsi. E se la scelta è costringere Elena Ferrante a mostrarsi - con il rischio che non pubblichi più una riga - o continuare ad avere i suoi libri, io voto senza dubbi la seconda». E così sia. Continua a scrivere per noi, Elena. Per sempre.
E lasciamo che siano altre favolose autrici, innamorate dei tuoi libri, a parlarci ancora di te.
Lauren Groff
Osannata dal New York Times, ha conquistato il pubblico internazionale con Arcadia (Codice Edizioni).
«Invidio profondamente Elena Ferrante per la decisione di tenere segreta la sua identità. Agli inizi, quando morivo dalla voglia di avere un briciolo di attenzione, ho fatto il contrario, e ora me ne rammarico. Così, lei riesce a mantenere il suo lavoro puro, a scrivere di quelle emozioni oscure e furiose che tutte noi conosciamo bene, ma in un modo che è ancora tabù. Ho sentito dire che c’è chi pensa sia un uomo: assurdo, sarà che mi considero una femminista convinta. Chi è allora Elena Ferrante? È una donna, di sicuro, ed è un genio che ti leva il respiro. Poi, io stessa come scrittrice di romanzi, mi sono costruita una dozzina di ipotesi; ma, se la devo visualizzare, immagino una silhouette contro il vetro di una finestra, mentre guarda dall’alto il Golfo di Napoli».
Jhumpa Lahiri
Dopo il successo de La moglie (Guanda), ha dedicato a Elena Ferrante una “lettera aperta”, declamata all’ultimo Festival delle letterature di Roma. Eccone un estratto.
«Mi sembra che lei non nasconda nulla. Non c’è niente di tanto spiazzante quanto la franchezza. La forza della sua scrittura resta qui. A quelli che la considerano una scrittrice assente direi: tutt’altro. Percepisco, nonostante la sua irraggiungibilità, una porta più aperta che chiusa... Grazie alla maschera che la rende invisibile, può svelare qualsiasi cosa. Così come con il suo mantello Perseo riesce a uccidere Medusa, ciò che la occulta la rende strapotente».
Jami Attenberg
Con I Middlestein (La Giuntina), è una delle voci più vive della cultura Usa.
«Il mio libraio di fiducia a Brooklyn mi ha consigliato I giorni dell’abbandono: l’ho letto durante un viaggio a barcellona, seduta immobile per ore in un parco. Mi piace come Elena Ferrante non cerchi giustificazioni per le azioni dei suoi personaggi: non le importa che tu li ami o li odi, solo che tu li rispetti. Molti scrittori a New York in questo momento sono affascinati da lei. Sono sicura sia una donna, che vuole solo essere lasciata in pace a scrivere».
Valeria Parrella
Ha scritto Lo spazio bianco, da cui Francesca Comencini ha tratto l’omonimo film, Lettera di dimissioni e Tempo di imparare (Einaudi), è autrice di racconti e testi teatrali. Vive a Napoli.
«A Napoli quando ci si siede al caffè c’è il toto-Ferrante... Ma poi chi ha detto che Elena Ferrante sia di Napoli? Certo, il cognome è napoletano, alcuni quartieri sono riconoscibili... Io ho letto la trilogia, mi è piaciuto soprattutto il primo libro, anche se sono rimasta legata all’Amore molesto. Ferrante è brava a catturarti con il suo stile viscerale, c’è molto corpo nella sua scrittura, e c’è anche un che di decadente... Rispetto al mostrarsi o al negarsi, penso che per il lettore non cambi proprio niente. E Salinger, allora? Avercene... Resta un po’ di curiosità, ma che male fa. È anche vero che noi della nostra generazione, i quarantenni di oggi - sono nata nel ’74 - ci mostriamo molto: è un atteggiamento sociale, un fenomeno nato 10 o 15 anni fa con i festival di letteratura. È come se accompagnassimo il libro ai lettori, anche potenziali: che magari vengono perché, pur non conoscendoti, sono interessati all’argomento che tratterai. La nostra è un’epoca di grande permeabilità, di grande raggiungibilità. Una cosa però resta vera: uno scrittore, per creare un suo mondo “dentro”, deve lasciare il mondo degli altri “fuori”. Il tempo del vuoto, della negazione, è quello migliore».
Elizabeth Strout
Ha vinto nel 2009 il Pulitzer con Olive Kitteridge (Fazi Editore), ora diventato una miniserie Tv presentata a settembre al Festival del Cinema di Venezia. Il suo ultimo romanzo è I ragazzi Burgess.
«Ho conosciuto le opere di elena Ferrante grazie a un articolo sul new Yorker. Lì l’autore, James Woods, citava le sue parole: “Che bisogno hanno di vedermi? Ho già dato loro i miei libri”. Ricordo di aver pensato: chi è questa donna? Anch’io non metto la mia foto sul risvolto di copertina, ma non ho mai avuto il coraggio di oppormi ad alcune strategie del mondo editoriale come fa lei. E sono corsa a comprare i suoi libri. Capisco benissimo la sua scelta: è sempre solo il libro che conta. A me non importa assolutamente di sapere se sia un maschio, una femmina, una piscanalista, come dice qualcuno. So solo che è stupefacente, una delle più grandi scrittrici contemporanee. Dice cose terribilmente importanti, scrive con onestà totale anche di argomenti ancora complicati e scomodi, come le differenze sociali, l’essere donna in determinati contesti. non si tira indietro, non gira lo sguardo dall’altra parte. Amo il suo lavoro: grazie, elena Ferrante».