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L’ultima scelta: “La casa blu” di Massimiliano Governi

Autore: Luigi Loi
Testata: Lavoro culturale
Data: 9 marzo 2016
URL: http://www.lavoroculturale.org/la-casa-blu-massimiliano-governi/

Rinnovando un espediente letterario ormai classico, l’ultimo romanzo di Massimiliano Governi affronta il tema difficile dell’eutanasia.

Esiste un espediente letterario rodato quanto efficace che mette due personaggi fianco a fianco sui sedili di un’automobile: «Il viandante si alzò e lo guardò attraverso i finestrini. “Mi dai un passaggio, amico?”». Così Steinbeck introduce Tom Joad in Furore. Lo fa semplicemente accomodare affinché si presenti al lettore, il testimone (o se vogliamo il fantasma) che siede sempre sui sedili posteriori dell’auto. E ancora, due agenti della polizia di Stato della Louisiana, Marty Hart e Rust Cohle in True detective, parlano dentro all’auto di pattuglia: «Posso farti una domanda? Sei cristiano?». Rust Cohle risponde negativamente e conclude: «Sono fatto così e non ho la tempra per suicidarmi». Lo stesso espediente funziona magistralmente anche nell’ultimo romanzo di Massimiliano Governi, La casa blu, uscito nella collana “Assolo” di e/o.

Un uomo di cui non conosciamo il nome decide di partire in auto per la Svizzera verso la Casa blu, un centro per suicidi assistiti. Sappiamo poco di lui: è un ex giornalista, probabilmente andrà a intervistare qualcuno che intende morire. Ma sul sedile del passeggero c’è suo figlio. Attraverso il dialogo cupo che intrattengono i due, il lettore imparerà a conoscere entrambi, avrà modo di osservare la natura dell’uomo colta nella sua più precisa essenza: la nascita e la morte. Non è un caso che si sia evocato quel passaggio di True detective (del resto così presente e ricordato nello stesso romanzo di Governi).

Il dialogo tra padre e figlio si dipanerà circa il significato irriducibile e incontrovertibile della rinuncia volontaria alla vita. Nelle pagine impeccabili che Governi ha imbastito attorno ai suoi personaggi, via via che ci si avvicina alla Svizzera, appaiono i simboli del male di vivere, della malattia e delle sue più concrete incarnazioni artistiche che hanno vissuto in prima persona questo dramma. Appare David Foster Wallace, ritornano i due poliziotti di True detective. Ma l’indagine introspettiva è tutta a carico del lettore che deve ricalibrare, pagina dopo pagina, il proprio concetto di dignità di fronte alla sofferenza fisica, giacché quando non vi è eutanasia, il suicidio è nella stragrande maggioranza dei casi un fatto cruento. Involontariamente ritornano alla mente gli addii di Franco Lucentini e Mario Monicelli, ci si domanda se una morte così sia «una condanna inflitta alle carni o anche alle anime delle persone» (p. 71). Ci si interroga sul significato etico dell’eutanasia. Su quello culturale all’interno della nostra comunità. In Svizzera, dove il suicidio assistito è legale dagli anni Quaranta del Novecento, per i residenti e per i cittadini stranieri, la dolce morte (una parafrasi giornalistica ripugnante) esiste ed è quanto mai reale per tanti nostri connazionali che sono costretti a intraprendere questa strada.

Persuasori occulti

Nonostante l’acuminato idioma, nonostante lo straordinario potere affabulatorio dell’autore, che occulta volutamente la propria padronanza tecnica (tant’è che si è portati a credere che tutti possano scrivere così, con questi periodi quasi monocellulari), nonostante non vi siano iterazioni e aggettivazioni tripartite (tanto di moda quanto abusate), né di strutture a occhiale del tipo aggettivo+sostantivo+aggettivo. Nonostante l’assenza di tutte queste marche stilistiche, quelle dello scrittore visionario, per usare una sigla tanto in voga tra i critici che promuovono queste scritture enfatiche, la piccola musica che suona Governi ci parla di cose minute e comuni che sopravviveranno alle persone, sia che si tratti di un brano di Elvis Costello, sia che si tratti dello Xanax (qui semplicemente “l’amico palindromo”), o degli scarpini da calcio di un ragazzo di quindici anni: «Mi piaceva tanto accompagnarti. Mi sedevo sulla tribunetta e ti guardavo allenare. L’erba sintetica, così verde, mi calmava. A casa, poi, ti aiutavo a togliere quei granuli di gomma che ti entravano negli scarpini» (p. 17).

È la piccola musica composta dal poeta moribondo, quella del meuble à tiroirs e dei pastels plaintifs et les pâles Boucher. Come se scrivesse con la sordina della tromba, Governi smussa ogni tentazione enfatica e tutte quelle immagini da bassa merceria che saremmo portati a cercare in un dramma familiare a tinte fosche. Non ci sono per evitare un meccanismo troppo facile: persuadere il lettore della propria tesi, alimentandolo con particolari saporiti. Il lettore non è mai ingannato, non viene mai strattonato per la giacchetta e indirizzato, dovrà autonomamente scegliere la propria strada. Una spia di questo atteggiamento autoriale è un passaggio di pagina 48. A parlare è la madre del ragazzo, l’ex compagna del giornalista: «Che cosa assurda. Un mattatoio legalizzato, dove la gente viene ammazzata a pagamento. L’orrore profetizzato da Benson nel Padrone del mondo oggi è realtà. Se curiamo le malattie eliminando il malato possiamo abolire la professione medica e tenere solo quella di boia o, come si chiamerà in modo politicamente corretto, operatore eutanasico». Bisognerebbe ringraziare l’autore per la fiducia che ripone in coloro che leggeranno questo libro, perché avrebbe potuto facilmente catechizzarli, cercando un facile consenso, perché di un tema spinoso come l’eutanasia si sarebbe potuto fare scempio, vista la confusione che regna in Italia.

Parole proibite

Un’indagine pubblicata da Eurispes evidenzia come quasi il 60 per cento degli italiani si dichiari favorevole all’eutanasia, ma purtroppo le parole eutanasia e suicidio in Italia sono ancora dei tabù. Il trattamento lessicale e lo storytelling che i nostri mass media applicano ai due termini è pressoché identico: eutanasia e suicidio sono la stessa cosa, perché il primo termine è semplicemente fuori dalle cose di diritto. Non solo, il Codice penale italiano regola l’omicidio del consenziente e sanziona l’istigazione al suicidio (art. 579 e 580). Accade allora che le dolorose scelte dei tanti Beppino Englaro diventino argomento di scontro tra fazioni pubbliche. Che il suicidio da drammatico accadimento privato diventi argomento di pubblica strumentalizzazione. Basti scorgere i titoli dei quotidiani nazionali di quest’ultimo lustro, sintetizzati mirabilmente in un trafiletto del «Fatto quotidiano»: «Il semestre nero dei suicidi, dall’inizio dell’anno 121 casi, il doppio rispetto a tre anni fa». L’opinione pubblica trova così nello stesso vassoio i suicidi economici (altra parafrasi ripugnante) e Piergiorgio Welby, che nel 2006 decise di porre fine al suo calvario dovuto alla distrofia muscolare.

Pascal scrisse (o fu Thomas Bernhard a farlo?): «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci». La rimozione della morte e l’oblio si incarnano in questo romanzo di Massimiliano Governi in un terzo personaggio, di cui ho volutamente taciuto finora. S’incarnano prima nel lettore, che siede come un fantasma sui sedili posteriori dell’auto per osservare, poi in un contadino veneto di cui anche stavolta non conosciamo il nome. Quest’uomo, un personaggio di fantasia, in astratto non è reale, ma in astratto non lo è nessuno di noi. In ciò è espressa la potente natura del testimone e del lettore, la sua non è osservazione astratta degli effetti bensì la loro causa concreta: cosa può dirsi concreto quando questo accade inosservato? Il contadino veneto di questo romanzo diventa la pietra di paragone su cui misuriamo il nostro concetto di vita. La più precisa essenza dell’uomo è sancita da due atti piuttosto banali: la nascita e la morte. Ma sono queste banalità che concretizzano l’astratto, esattamente come accade a questo personaggio di fantasia, esattamente come è accaduto a Piergiorgio Welby.