Ci sono libri che nascono da un incontro. Si conosce più o meno casualmente una persona, si rimane casomai affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dal valore delle storie che racconta, ci si convince che quelle storie devono essere diffuse, trovare la loro strada per arrivare ai loro lettori. Questo percorso, praticamente, è all’origine de Il bel tempo di Tripoli (Edizioni e/o, pp. 235, euro 16) di Angelo Angelastro. Del resto Angelastro, giornalista Rai, caporedattore del Tg1, deve essere una persona che crede molto negli incontri, nel contatto diretto con le persone, dato che le due rubriche che ha ideato per la testata Rai si intitolano, appunto, «TG1 Incontri» e «TG1 Persone».
L’incontro in questione è quello con Filippo Salerno, avvocato che a Bari aveva goduto di una certa notorietà per le sue difese di braccianti contro latifondisti e per essere stato una delle voci di Radio Palermo, l’emittente creata dagli alleati dopo il loro sbarco in Sicilia nel 1943. Siamo a metà degli anni Ottanta e il giornalista decide di registrare i racconti del vecchio avvocato relativi alla sua esperienza come Centurione della Milizia durante la spedizione coloniale in Africa voluta dal fascismo. I nastri resteranno a lungo dimenticati, finché, venticinque anni dopo, troveranno finalmente la loro destinazione come libro.
Quello che innanzi tutto colpisce il lettore è la freschezza, l’immediatezza, la vivacità del racconto di Salerno. E subito viene spontaneo chiedersi fino a che punto queste caratteristiche siano da ascrivere alla capacità narrativa del vecchio avvocato piuttosto che al lavoro di montaggio e di costruzione svolto dall’autore del libro. Si procede nella lettura guidati da questo sguardo interno alle cose – tutto è rigorosamente raccontato in prima persona – che risulta assolutamente adatto a far emergere tutte le sensazioni, le emozioni, le disillusioni che si susseguono nell’animo del protagonista. Si parte dalla decisione di Salerno di arruolarsi come volontario nella Milizia per andare in Africa. E già alla sua sicurezza, al suo entusiasmo fa da controcanto la disillusione della giovane moglie che sembra essere ben consapevole della reale natura del regime e della sciagurata impresa. Una consapevolezza che a poco a poco si fa strada anche nella mente del protagonista e che lo portera ad affermazioni quali: «Anzi, per dirla tutta, il mio Paese aveva preso a farmi schifo per quanto era popolato di manigoldi e macchiette. Un baraccone che non smetteva di far chiasso neanche a guerra dichiarata».
Intanto si susseguono gli avvenimenti di cui Salerno è testimone diretto o indiretto, dall’attentato a Graziani con la sua reazione isterica e la conseguente mobilitazione di quasi tutta la truppa per sorvergliare l’ospedale in cui era stato portato, all’incontro con Mussolini arrivato in Libia e non più così certo dell’inevitabile vittoria. E poi ancora la rivalità tra esercito e milizia, la presa di Adua che non ha niente dell’epica vicenda raccontata dai giornali, l’incontro con Curzio Malaparte, i vari episodi di corruzione, lo scontro tra Rommel e Gambara con la conseguente inchiesta della Gestapo, la fine tremenda dei soldati italiani condannati dal tribunale militare e imbarcati su di un piroscafo ben sapendo che sarebbe stato affondato dagli inglesi. E anche la vita di Salerno cambia: diventa responsabile dell’ufficio stampa della milizia e poi, in seguito, anche difensore degli inquisiti dal tribunale militare. Un incarico, questo, che prenderà molto sul serio a differenza degli altri avvocati d’ufficio che arrivavano al massimo a rimettersi alla clemenza della corte. Impegno che gli costerà caro, attiratosi l’odio dei giudici militari verrà «incastrato» con false accuse e condannato a morte.
Tra l’uso criminale dei gas da parte dell’esercito italiano, la pusillanimità e l’arroganza di personaggi come Graziani, la dignità dei ribelli senussi il racconto vira dal tragico al comico, dalla leggerezza all’indignazione. Mentre sempre più si fa sostanza quell’indeterminata sensazione comunemente nota come “mal d’Africa” che non risparmia neppure il protagonista di questo romanzo.
Romanzo ricco, infine, di scene davvero indimenticabili come quella in cui si racconta del generale Passerone, comandante di tutte le forze della milizia in Africa Orientale, che, all’indomani della firma del patto Ribbentrop-Molotov, si presenta davanti a una folla di operai ad Addis Abeba pronunciando un vero e proprio panegerico dell’Unione Sovietica, alleata ormai della Germania e, quindi, dell’Italia, concludendo con uno stentoreo: «Evviva Stalin!». L’episodio si conclude con i lavoratori che, infiammati dal discorso, improvvisano un corteo tra le vie della città al grido di «viva Stalin» portando in trionfo il generale ancora inneggiante anche lui al leader sovietico.