ebbene piatto, il deserto ci elevava fino ai cieli. Le stelle scintillavano così vicino che avrei potuto coglierle. Pendevano come grosse mele brillanti a portata di mano su quel frutteto chiamato Hoggar. Di notte il Sahara assume un’aria di festa. Mentre sotto il sole infligge l’ascesi, col buio diventa ricco, profuso, generoso, orientale, prodigo di un’orgia di gioielli realizzati dal più pazzo dei gioiellieri, collane, spille, diademi di diamanti, catene d’oro e braccialetti di scintille. Migliaia di stelle ornano lo scrigno di velluto color bistro, e l’argentea luna sovrana, come la regina del ballo, spande tutto intorno la sua imperiosa chiarezza. Ci eravamo allontanati dal fuoco per abituare le pupille alla luminosità degli astri. La terra lugubre amalgamava pianure, dune e rocce in uno stesso crogiolo cinereo. In mezzo ai quei pellegrini avvolti nelle coperte Jean-Pierre, in piedi, ci dava una lezione d’astronomia. Da scienziato all’osservatorio di Tolosa e docente all’università, insegnare in quell’aula stravagante lo faceva vibrare di emozione. Per la prima volta in vita sua poteva indicare una determinata stella con la coda dell’occhio o tracciare col dito sulla lavagna del cielo le linee che formavano una costellazione. Mai Orione, l’Orsa Minore o l’Orsa Maggiore avevano avuto quella consistenza e quella prossimità. In assenza di qualsiasi inquinamento luminoso dovuto alla civiltà il cosmo concedeva i suoi splendori. A me sarebbe bastato contemplarli… C’era davvero bisogno di dare un nome alle stelle per ammirarle? O di contarle? Sennonché, in effervescenza fin dal giorno prima, il professore smaniava per dispensare il suo sapere. A differenza del giorno, che limita il cielo all’azzurro, la notte non ha confini. Ci rivela realtà nascoste a milioni di chilometri di distanza. Ci mostra anche realtà scomparse, le stelle morte, dal cui strascico luminoso siamo ancora raggiunti. Descrivendoci il firmamento JeanPierre ci metteva a confronto con due infiniti, quello del tempo e quello dello spazio. Ho sempre avuto una certa difficoltà a captare l’infinito. Riesco a pensarlo, ma non a rappresentarmelo. Dal punto di vista filosofico ha una definizione chiara: “Ciò che non ha confini”. E anche dal punto di vista matematico: “Ciò il cui numero di elementi è maggiore di qualsiasi numero scelto”. In compenso l’immaginazione balbetta. Tutto quello che mi figuro nella mente è concreto, vedo un confine dopo l’altro, non l’infinito. Visualizzo un numero e vi aggiungo un’unità, non arrivo a scorgere il numero infinito. Insomma, mentre la ragione è bravissima ad astrarsi, i sensi si impennano di fronte all’ostacolo. Sotto il cielo mi costringevo a costruire stelle dietro altre stelle, ulteriori vie lattee al di là della nostra, spingendo indietro le frontiere… Non ci riuscivo. Il cervello mi inviava solo uno sfondo nero punteggiato di perle che la mia fantasia attraversava, moltiplicava e riattraversava senza toccare l’assoluto. In vena, l’astronomo Jean-Pierre, come del resto il geologo Thomas, sollevava il velo delle apparenze e ci narrava il passato segreto del panorama celeste. “Torniamo alla prima infanzia dell’universo”. Emise un sospiro di piacere. “Quattordici miliardi di anni fa l’universo si trovava nello stato di massima densità: miliardi di miliardi di miliardi di tonnellate in una goccia. Quando è esploso con un “big bang”, espressione che dà il nome alla teoria, la materia si è dispersa e l’universo si è espanso. Da allora continua a espandersi. L’osservazione indica che le galassie si allontanano da noi a una velocità pro porzionale alla distanza che ci separa da loro. Un’espansione che possiamo definire infinita… Se andiamo indietro nel tempo l’universo era esiguo, più caldo e molto denso. All’inizio l’energia era costituita dall’irraggiamento, poi la densità dell’irraggiamento è calata fino a diventare inferiore a quella della materia. Allora nell’universo ha predomi nato la materia e le forze gravitazionali hanno preso il sopravvento sulle forze elettromagnetiche. Le galassie sono, miliardi di anni dopo, il risultato di quelle evoluzioni. Noi stessi incarniamo una conseguenza di quelle variazioni. Siamo solo polvere di stelle”. I miei compagni di viaggio, bocca aperta e occhi sgranati, approvavano convinti. Uno a uno si alzavano per andare a guardare nel telescopio. Abbastanza rapidamente cominciai a fantasticare… Le stelle, mute, hanno sempre reso gli uomini chiacchieroni. Avrei avuto voglia di elaborare non la storia delle stelle, ma la storia delle loro storie. Una bella differenza! Oh, non volevo tornare indietro di quattordici miliardi di anni, mi accontentavo di balzare di secolo in secolo. Jean-Pierre ci illustrava l’universo secondo Hubble, ma il sapiente di un secolo prima l’avrebbe raccontato secondo Newton, e tre secoli prima secondo Galileo, e nell’antichità e nel Medio Evo secondo Tolomeo. Ancora prima, il racconto sarebbe stato fatto da un poeta, uno stregone o un sacerdote. Da quando gli umani si riuniscono nella notte misteriosa i discorsi proliferano. E dato che non sopportano l’ignoranza, gli uomini creano saperi. Inventano miti, inventano dèi, inventano un dio, inventano le scienze. Gli dèi cambiano, si alternano, muoiono, e altrettanto succede ai modelli cosmologici. Rimane solo un’ambizione: spiegare. Ero talmente assorto nelle mie riflessioni che avevo saltato il mio turno al telescopio. Il professore universitario aveva notato il mio riserbo. “Non è d’accordo con me, signor filosofo?”. “Sì, quella del Big Bang è una bella speculazione, ma rimane comunque un’ipotesi… Che verrà abbandonata… Come tutte quelle che l’hanno preceduta… Ogni evo ha la sua leggenda”. “Che significa? Io enuncio verità scientifiche”. “In tutte le epoche, intorno al fuoco, l’oratore del deserto crede di possedere la verità. E i suoi contemporanei, intorno a lui, ne condividono la convinzione”. “Mette in dubbio la mia teoria?”. “Provvederà il tempo a farlo. La teoria che lei ci racconta è l’ultimo grido in fatto di ricerca scientifica, ma sa quanto me che anche questa tesi sarà superata. La verità rimane inaccessibile, esistono solo verità provvisorie, tentativi di verità. In fondo la sua teoria espone la maniera moderna di vivere l’ignoranza”. “Ignoranza?” ripeté lui quasi strozzandosi. “Commovente, no?” mormorai. Un silenzio imbarazzato accolse il nostro scambio di idee. Il mio intervento dava fastidio! L’unica cosa che il gruppo aveva recepito del mio commento era la tracotante provocazione. Avevo voluto essere umile riportando me, lui e tutti noi alla scala millenaria dell’umanità, e invece apparivo pretenzioso. “Disprezza la scienza?” continuò lui, aggressivo. “Niente affatto! La considero con attenzione e rispetto, così come considero con attenzione e rispetto i miti e le religioni”. Più discutevo e più aggravavo la mia posizione. Mettere la scienza al livello di altre finzioni, in quel caso irrazionali, scandalizzava i presenti. Fiutando un’ostilità crescente, optai per un diversivo e gli rivolsi una domanda. “Jean-Pierre, può spiegarmi meglio la teoria dei buchi neri? La capisco male”. L’astronomo sbatté le ciglia soddisfatto che tornassi nei ranghi degli alunni e gli restituissi il trono dell’esperto. Improvvisò lì per lì una conferenza brillante. La musica dei concetti scientifici aveva ripreso il suo ritmo rasserenante. Tutti sorridevano. Il mio scandalo era dimenticato. Senza valutare la violenza del sacrilegio avevo interrotto un rituale sacro, il rituale della spiegazione. Gli uomini, confrontati a fenomeni strani come il cielo, la luna, le stagioni, la nascita e la morte, hanno l’esigenza di intravedere un’architettura invisibile sotto il mondo visibile. La mente, che teme l’ignoto tanto quanto il corpo teme il vuoto, inventa di continuo per distruggere la sensazione di isolamento o di impotenza. Proporre è meglio che ignorare. Anche sbilenca, una spiegazione è meglio di niente. Il bisogno di capire non si riduce a una fame di razionalità, è il bisogno di rassicurarsi identificando le tenebre, mettendo ordine nel caos. In fondo tutti i chiarimenti hanno la stessa origine: la paura di non averne. “Perché?”. La domanda era sgorgata da una voce di donna. Che la ripeté. “Perché?”. Ségolène insisteva, anche se lo stupore degli sguardi sottolineava quanto il suo intervento fosse inopportuno. “Lei spiega il come, ma non il perché. Perché esiste l’universo? Perché l’energia ha intrapreso un moto che l’ha portata alla vita? Da una semplice esplosione siamo arrivati a un sistema solare e a esseri complessi come gli animali che siamo. Perché?”. “Il perché non è campo della scienza”. “Intende dire che uno studioso non si chiede mai perché?”. “Intendo dire che uno studioso è consapevole di non poter dare una risposta scientifica al perché. Si limita al come”. “La domanda più interessante è perché”. “Ne è sicura? Trova davvero interessante una domanda che non otterrà mai risposta? Mi permetta di pensare il contrario, Ségolène. Il filosofo che ne dice?”. Aveva pronunciato “filosofo” con lo stesso tono che avrebbe usato per dire mago, astrologo o ciarlatano, pieno di boria positivista. “A me piacciono solo le domande che non hanno risposta” replicai. “Ah sì?”. “Sì. Sviluppano la mia curiosità e la mia umiltà. Lei non trova?”. Capì che se avesse detto un’altra parola l’avrei attaccato. Il dialogo finì lì. Ségolène mi studiò. Entrambi ghiotti di letteratura, avevamo già avuto conversazioni amichevoli. “Tu riesci a vedere la natura senza interrogarti sulla direzione che prende? Sul significato? Il cosmo e la vita attestano l’esistenza di una mente superiore. Io, di fronte a tanti prodigi, non posso fare a meno di pensare che dietro ci sia un progetto, un disegno intelligente”. “Dio?”. “Dio. Tu non lo pensi?”. Abbassai le palpebre. Avevo orrore di affrontare frontalmente quel genere di questioni e non mi andava di esporre in pubblico i miei pensieri più intimi. Ségolène non demordeva. “Tu non lo pensi?”. “Dio è presente in me soltanto in forma di interrogativo”.
“La notte di fuoco” di Eric-Emmanuel Schmitt (208 pp., 12,50 euro) è pubblicato dalle edizioni e/o . Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca.