Lo abbiamo sempre chiamato Alto Adige, senza farci troppe domande. Anzi, stupendoci della testardaggine con cui gli abitanti di quella regione all’estremo nord d’Italia, sul confine con l’Austria, continuavano a parlare tedesco, ostentando un viso duro e rifiutandosi di capire quando veniva loro rivolta la parola in italiano. E invece eravamo noi a non capire. Che la Storia non si fa con decisioni prese a tavolino, che non si cancella il passato con una linea di matita che traccia nuovi confini, che non si può proibire, da un giorno per l’altro, di parlare la propria lingua e imporne un’altra, che è ridicolo cambiare non solo la toponomastica ma addirittura i cognomi delle famiglie che hanno vissuto centinaia di anni, se non di più, in un luogo. Non Sud Tirolo, ma Alto Adige, non Bozen, ma Bolzano, non Brixen, ma Bressanone. Il romanzo di Ernst Lothar, “Sotto un sole diverso”, ci porta in Sud Tirolo alla fine degli anni ‘30, quando Hitler ha iniziato le prove generali per scatenare l’inferno in Europa. Per la famiglia Mumelter di Bolzano, intagliatori per tradizione, l’inferno era già iniziato. Fino all’avvento del fascismo la regione che era stata bottino di guerra italiano aveva potuto mantenere le sue caratteristiche su espressa volontà di re Vittorio Emanuele III, deciso a rispettare le autonomie e le tradizioni locali.
La forzata italianizzazione dell’Alto Adige (proibita la denominazione Tirolo o sud Tirolo) incominciò con la riforma Gentile del 1923: le scuole in lingua non italiana sarebbero state gradualmente soppresse. Era naturale che i neo-denominati altoatesini esultassero per l’annessione dell’Austria al Reich, che avessero fiducia nel nazismo, che sperassero che Hitler avrebbe reclamato anche il Tirolo (90% degli abitanti era di lingua tedesca) come parte della grande Germania. E invece gli accordi tra Hitler e Mussolini del 21 ottobre 1939 prevedevano solo due opzioni: o il rimpatrio nel Reich o restare ed essere italianizzati, senza alcuna tutela linguistica e con la possibilità di essere trapiantati altrove, in Italia.
Andreas Hofer, eroe tirolese
Questa breve spiegazione storica è parte integrante del romanzo di Lothar, è strettamente intrecciata alla trama, non c’è una pagina in cui non venga ricordato il sopruso. E i Mumelter- il nonno novantunenne, l’antinazista Andreas, la giovane Riccarda (incinta di un italiano che non ha intenzione di assumersi le sue responsabilità) e Sepp, invasato ed entusiasta della retorica della croce uncinata come solo un superficiale diciassettenne può esserlo- sono nelle liste degli ospiti non graditi destinati all’esilio. Sono anche fortunati nell’immensa sfortuna, perché, grazie alla laurea in ingegneria di Andreas, verranno mandati in Boemia dove si trova la fabbrica della Škoda. Ma non lo sanno, il loro viaggio nel treno piombato è un viaggio nel nulla, lo sferragliare del treno è il conteggio dei chilometri che li separano dalla loro terra. Di Ernst Lothar avevo già letto “La melodia di Vienna”, un capolavoro. E’ impossibile scrivere due capolavori, ma “Sotto un sole diverso” è un libro molto bello e Ernst Lothar è uno scrittore straordinario. In quanto ebreo che era dovuto fuggire dalla Germania avrebbe potuto limitarsi a scrivere dell’immane tragedia della sua gente sotto il nazismo. Ma non lo fa. Lothar ha un animo grande, la sofferenza di una minoranza etnica nelle terre incoronate dalle Dolomiti vale tanto quanto quella dei pogrom che hanno fatto degli ebrei un popolo errante. La spietatezza dei nazisti non è in primo piano in questo romanzo quanto ne “La melodia di Vienna”, ma c’è: il brutale assassinio dell’insegnante di francese, le grida che provengono dal campo vicino a Plzen, l’incarceramento prima di Andreas e poi dell’americana Gwen (colpevole solo di testimoniare la verità) ne sono una prova.
E’ un’altra crudeltà, più sottile, che prevale, la crudeltà propria del nazismo di non tenere in considerazione l’umanità dell’uomo, di pensare che gli esseri umani sono delle pedine da spostare su una scacchiera (e forse significa qualcosa che il vecchio Mumelter non avesse voluto cambiare il genere delle sue sculturine di legno, sostituendo le madonne e i crocefissi con le pedine degli scacchi). E, tra tutte le vicende del romanzo, la scena che più dolorosamente ci resta impressa è quella di Lorenz Mumelter, questo grande e dignitoso vecchio che è andato a chiedere al sacerdote il permesso di uccidersi, che si aggira per un ultimo saluto alla sua città, accarezzando i muri, porgendo l’ultimo omaggio ai suoi morti al cimitero, lasciando l’ultimo mazzetto di fiori su ogni tomba. No, nessuno dovrebbe vivere un’esperienza del genere. Men che meno a novantun anni. E allora la guerra può fare questo, può privarci della patria. E, come si resta orfani di genitori, o di figli, se la parola ‘orfano’ significa ‘privo’, si può restare orfani anche della propria terra.