26 aprile 1986. All’una, 23 minuti e 58 secondi si verifica la prima di una serie di esplosioni che distruggeranno il reattore e il fabbricato della quarta unità della centrale elettronucleare di Černobyl’. Ljudmila, moglie di un vigile del fuoco accorso a spegnere il primo incendio assieme a decine di suoi colleghi, non ricorda lo scoppio vero e proprio, ma solo le fiamme altissime, il cielo illuminato e la fuliggine che ricadeva a terra ricoprendo tutto, un paesaggio quasi romantico. Alle sette della sera dello stesso giorno il marito era già ricoverato in ospedale. L’inizio di un incubo lungo quattordici giorni... Anna Petrovna è una residente non autorizzata del villaggio Belyj Bereg nella provincia di Gomel’, uno dei centri più colpiti. Ricorda la radiazione, l’orto diventato tutto bianco come se l’avessero spolverato di farina; ricorda i soldati che rastrellavano i villaggi costringendo gli abitanti ad abbandonare la propria casa e sparando a cani, gatti e mucche. Ma loro non ne volevano sapere di partire, non volevano niente dallo Stato, solo essere lasciati in pace...Zoja Danilovna, ispettore per la protezione della natura, ricorda con la voce rotta dall’emozione i giorni immediatamente successivi all’esplosione. “Fra tutti, i campagnoli sono quelli che fanno più pena, sono delle vittime innocenti, come i bambini...Non potendosi capacitare dell’accaduto, si sono affidati fiduciosamente agli scienziati e si sono sentiti ripetere in continuazione: va tutto bene, non c’è da aver paura, lavatevi solo bene le mani prima di andare a tavola. Ho capito, non subito, ma dopo qualche anno, che abbiamo tutti quanti partecipato ad un crimine”...
A quasi trent’anni dall’esplosione, sembra impossibile che Černobyl’ sia stato teatro del più grande disastro tecnologico del XX secolo: ce ne siamo già dimenticati. Eppure poco è cambiato in quei territori. Scorrendo le immagini di un reportage de “Il Sole 24 ore” di qualche anno fa, vediamo coltivazioni abbandonate, soppiantate da sterpi e boscaglie basse; i boschi di abeti e di betulle (bellissimi ma maledettamente nocivi) sono intersecati da larghi tratti rasi al suolo per impedire ad eventuali incendi di propagarsi (la foresta di cesio e di torio non deve bruciare). Molte persone, soprattutto quelle più povere, sono tornate a vivere in quelle lande desolate perché non saprebbero dove altro andare, perché il legame intimo che hanno con la propria terra supera ogni paura, persino quella della morte. Preghiera per Černobyl’ ci scuote dal torpore e ci costringe ad aprire gli occhi su una realtà dimenticata. Un racconto scritto ascoltando per tre lunghi anni chi quell’inferno lo ha vissuto sulla propria pelle. La Storia raccontata attraverso le piccole storie, di dolore e lutto, di gente per lo più povera ed ignorante alla quale non sono stati dati l’informazione ed il sostegno necessari per fronteggiare l’emergenza; poveri contadini ai quali è stato detto - nei giorni immediatamente successivi all’incidente – di continuare ad occuparsi delle attività agricole pur di non fermare la produzione; povera gente che si è fidata ciecamente degli amministratori e degli scienziati locali. Svetlana Aleksievič urla la rabbia di tutte queste persone. E se alcuni hanno letto nel disastro della centrale la prima vera spallata al comunismo, quello che rimane dopo la lettura di questo travolgente racconto – non ultimo lo straziante coro dei bambini – è la sensazione che a Černobyl’ ad essere inquinata non sia soltanto la terra, ma anche e soprattutto le coscienze. “L'era atomica doveva essere chiusa. Andavano cercate altre vie. E invece continuiamo a vivere con la paura di Černobyl’. Pensavo di avere scritto del passato. Invece era il futuro”.