Quando le giornate sono terse e mi capita di essere sulla collina retrostante il mio paese, se aguzzo la vista le vedo, le due torri grige della ex-centrale nucleare di Trino Vercellese, un piccolo colosso di cemento, acciaio e ferro oggi spento e all’apparenza innocuo. In realtà, circa il 70% delle scorie radioattive italiane (che derivano sia dalla parentesi nucleare italiana sia dalla medicina nucleare) sono conservate in Piemonte, stoccate tra i depositi di Saluggia e di Trino Vercellese. Questo dato può spiegare in parte il mio interesse per tutto ciò che ruota attorno all’atomo ed è anche uno dei motivi che mi hanno spinta a leggere “Preghiera per Černobyl’” della scrittrice bielorussa e Premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksievič (E/O, 293 pagine, 14 euro).
Titolo: Preghiera per Černobyl’
L’Autrice: Svetlana Aleksievič è una giornalista e scrittrice bielorussa insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 2015. Oltre a “Preghiera per Černobyl'”, in italiano sono disponibili: “Ragazzi di zinco”, “Incantati dalla morte”, “Tempo di seconda mano” e “La guerra non ha un volto di donna”
Traduzione dal russo: Sergio Rapetti
Editore: E/O
Il mio consiglio: leggete questo libro testimonianza per non dimenticare una delle maggiori tragedie della nostra epoca. E’ un libro scritto benissimo che parla di una storia bruttissima
Siamo spesso silenziosi. Non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo, come sempre, sopportiamo. Anche perché non ci sono ancora le parole. Abbiamo timore ad affrontare questo argomento… Non sappiamo da che parte prenderlo… Un’esperienza insolita, questioni insolite… Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Černobyl’, e ci siete voi, tutte le altre persone. L’ha notato? Qui nessuno mette l’accento sulla nazionalità: io sono bielorusso, io ucraino, io russo. Sia chiamano tutti “černobyliani”… “Siamo di Černobyl'”, “Io sono uno di Černobyl'”… Come se fosse un popolo a parte… Una nuova nazione… [Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 148]
E’ difficile parlare di un libro come questo, un contenitore di testimonianze drammatiche tanto quanto vere, a proposito di quello che è passato alla storia come il disastro di Černobyl’. Un disastro è una sciagura che provoca danni di vaste proporzioni e provoca la morte o il ferimento di molte persone: Černobyl’ è stato proprio questo, una terribile sciagura che la giornalista Svetlana Aleksievic non ha voluto che cadesse nell’oblio e con coraggio e maestria ci ha consegnato questo incredibile libro testimonianza sulla tragedia.
Perché dico incredibile, dato che si tratta di storie vere? Durante la lettura, sono rimasta incredula e allibita per le menzogne e le cattiverie che il partito ha fatto subire a queste persone, colpite nel vivo dalla vicenda. Menzogne come continuare a trasmettere messaggi in televisione che rassicuravano la popolazione, cattiverie come far sparire i libri di fisica e chimica dalle biblioteche affinché la popolazione non potesse documentarsi sulle radiazioni. Menzogne come non lasciar fotografare o filmare la centrale di Černobyl’ nei giorni successivi al disastro per evitare che venissero le sconvolgenti condizioni di lavoro dei liquidatori e dosisti. Cattiverie come fornire i dosimetri guasti ai pompieri affinché non si rendessero conto di quante pericolose radiazioni stavano effettivamente assorbendo.
Nella nostra coscienza Černobyl’ è legato a una quantità di menzogne tanto massiccia da risultare incredibile, e che non ha eguali salvo forse durante il periodo bellico… [Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 172]
26 aprile 1986, è circa l’una di notte quando il reattore 4 della centrale elettronucleare a grafite-uranio di Černobyl’ scoppia. E’ l’inizio dell’inferno, ma molte persone non lo sanno ancora e non lo sapranno per molti mesi, fin quando inizieranno a cadergli i capelli a ciuffi, oppure inizieranno a sputare pezzi del loro stesso fegato, o ancora vedranno desquamarsi la pelle o vedranno i loro figli morire il giorno in cui nascono.
Tra le agghiaccianti testimonianze raccolte da Svetlana Aleksievic c’è quella di una ragazzina di Pripjat’ – il paese immediatamente a nord della centrale – che la mattina del 26 aprile vede le nuvole azzurre e le fiamme dal tetto della centrale e con i compagni di giochi corre in bicicletta fino alla zona per vedere cosa sia successo.
Ci sono i contadini, umili e legati alla terra, quella terra che amano così tanto e che non capiscono perché devono lasciare: ma le patate sembrano sempre le solite patate, perché dobbiamo gettarle via? I ciliegi e i lillà stanno fiorendo, non c’è nulla di strano, perché dobbiamo scappare? Latte al cesio, cosa dite? La radiazione cos’è? Non si vede, non ha colore, non ha odore, non ha rumore, la radiazione non esiste l’avete inventata voi! Ma poi, se si cammina su un prato umido di rugiada radioattiva può darsi che qualche ora dopo ci si ritrovi le gambe bucherellate come uno scolapasta.
Černobyl’… E’ una guerra che va oltre qualsiasi guerra. L’uomo non ha via di scampo. Né sulla terra, né sott’acqua, né in cielo. [Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 63]
Ingegneri, fisici, medici, dosisti: tutte persone istruite che nei primi momenti dopo l’incidente hanno capito la reale portata del dramma e hanno compreso che il partito stava coprendo tutto. L’Unione Sovietica nel 1986 stava iniziando a scricchiolare dalle fondamenta, ma era ancora in piedi. Un fisico capisce cosa è successo a Černobyl‘ e chiama disperato la moglie per dirgli di far assumere lo ioduro di potassio al figlio, per non che la sua giovane tiroide assorba lo iodio radioattivo e possa sviluppare tumori nei mesi a venire. Il KGB all’epoca ascoltava ogni conversazione telefonica: appena udiva parole quali “radiazioni”, “Černobyl'”, “leucemia” faceva cadere la linea ed era impossibile richiamare.
E poi, gli elicotteristi, i liquidatori e i pompieri, coloro che venivano chiamati per spegnere i vari focolari degli incendi, coloro che dovevano ripulire il tetto, svuotare le piscine di acqua radioattiva. Venivano obbligati ad andare a Černobyl’ ma li chiamavano volontari. Promettevano loro onori in stile sovietico, soldi, vodka e una dacia in campagna se salivano sulle coperture pericolanti del tetto a rimuovere i frammenti di grafite. Davano loro i dosimetri guasti. Dicevano loro che avevano assorbito pochi rem (röntgen equivalent man), non avrebbero avuto problemi. Gli dicevano che non c’era pericolo, nessun pericolo. E sono morti, tutti. E si sono ammalati i loro figli.
Ho dodici anni e sono invalida […] Da quando le mie compagne di classe hanno saputo che avevo il cancro del sangue, hanno avuto paura a sedersi vicino a me… E anche a toccarmi… I medici me l’hanno detto: mi sono ammalata perché il mio papà ha lavorato a Černobyl’. E poi ero nata io. Io voglio bene al mio papà… [Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 270]
Qual è l’eredità di Černobyl’, l’uomo ha imparato qualcosa da questa tragedia? L’atomo buono nel quale i sovietici avevano tanta fiducia, probabilmente non esiste. L’atomo è qualcosa di veramente imprevedibile e difficile da governare, e l’uomo è così fallibile e impreciso, che forse è quasi una follia dargli tra le mani tutta questa energia.
Oggi di Černobyl’ non resta che uno sbiatito ricordo tra le coscienze di noi occidentali: passato il presunto pericolo, lo si commemora quasi per obbligo ogni anno. Ma Černobyl’ è un incidente che ha segnato e sta segnando tutt’ora migliaia di persone, tutti quegli ucraini e bielorussi che ancora oggi vivono in prossimità dei terreni contaminati. Resta la paura di sviluppare un cancro, la paura di trasmettere una malattia ai propri figli e resta il desiderio che l’incidente non sia mai avventuo e resta la voglia – perlomeno in sogno – di tornare nella propria casa.
Faccio spesso un sogno, nel quale io e mio figlio passeggiamo per una Pripjat’ piena di sole. Adesso è oramai una città fantasma. Camminiamo e guardiamo le rose, a Pripjat’ ce n’erano molte, di rose, grandi aiuole tutte fiorite… Ero così giovane. Il bambino era piccolo. Amavo… Ma la paura l’ho dimenticata… Come se davvero fossi stata soltanto una spettatrice… [Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 270]