Filippo Salerno è un fascista barese che nel 1935 si arruola nella Milizia e parte come volontario perla guerra d’Abissinia, quel Corno d’Africa da strappare al negus Hailé Selassié e consegnare alla civiltà romana. Nel 1940 è in Libia, nella speranza di sottrarre Alessandria e il controllo del canale di Suez agli inglesi. Nel 1943, infine, rientra in Italia al seguito delle truppe americane, da fascista disilluso ancor prima che da soldato sconfitto. Se i regimi del Novecento si sono fondati sull’unione mistica tra il grande capo e il suo popolo nel nome di una missione storica da perseguire, il racconto della fine dei totalitarismi passa anche dalle vicende di chi in quei regimi ha creduto e quei regimi con le proprie forze ha alimentato. Il bel tempo di Tripoli di Angelo Angelastro (edizioni e/o, pp. 240, euro 16) è appunto la testimonianza di un italiano, fascista entusiasta, che insieme al sogno coloniale ha visto tracollare la propria adesione a un progetto politico da cui aspettava impeto rivoluzionario, ma in cui ha trovato faccendieri e vanagloriosi. Angelastro è un giornalista Rai, che ha conosciuto e frequentato Salerno negli anni ’80 nella sua casa barese, dove ha registrato lunghe interviste sui tempi africani. Ha poi impiegato 25 anni per decidersi a ordinare e mettere su pagina il racconto che risultava dal suo archivio di nastri e pagine scritte, un memoir dove, in una combinazione che sarebbe piaciuta a Fenoglio, convivono grande storia e questioni private. La guerra è una quinta teatrale lontana. Entra nella narrazione insieme all’eco dei bombardamenti e alle minacce dellemine anti-uomo, ma, può sembrare paradossale,non è l’oggetto principale della narrazione. In Abissinia Salerno ricopre l’incarico di capo ufficio stampa della Milizia, fotografo per passione e antropologo per diletto. Poi, in virtù dei suoi studi, è avvocato presso il Tribunale militare di Tripoli. Il suo punto di vista è mediato dalle funzioni che svolge. È un osservatore attento tanto all’umanità (italiana e indigena) che incontra quanto all’amministrazione che la gestisce. Il libro viaggia su due marce. Vive prima dello stupore e dell’ottimismo dell’impresa in Africa orientale. Il viaggio da Massaua ad Adua, e da qui ad Axum fino alla presa di Addis Abeba, si svolge in un territorio immaginifico agli occhi degli italiani, però avaro delle ricchezze che molti contavano di trovarvi. Si respirano un’ingenuità quasi infantile, come quella di chi crede di poter pescare nel fiume Tacazzè senza mettere in conto il rischio degli alligatori, e la delusione degli operai che, dopo aver lavorato nei grandi cantieri sorti con la costituzione dell’Impero, tornano in patria delusi da una Somalia e un’Eritrea prive di risorse per il futuro. Il racconto si incupisce quando la scena si sposta in Libia. Gravano le lotte tra i gerarchi fascisti, l’oscuro incidente in cui perde la vita Italo Balbo, gli inglesi alle porte, l’invadenza dello scomodo alleato tedesco. Ancor di più, pesa l’ottusità con cui il governo coloniale amministra la giustizia, il colpo di coda di un sistema che, vedendo sgretolarsi il proprio potere, stringe il pugno con i sudditi. In Salerno non c’è più gioia, poco a poco viene meno la fiducia. Il volontario della Milizia capisce che l’impianto etico in cui ha creduto, un fascismo fatto a suo modo di giustizia e rettitudine, è solo un esercizio di retorica. Tripoli sferzata dai bombardamenti e abbandonata in tutta fretta dagli italiani è l’immagine plastica della decadenza del regime. I palazzi di foggia occidentale che adornano le città libiche si svuotano rapidamente di persone e significato. L’Impero italiano evapora in maniera piuttosto rapida,il suo retaggio subirà processi politici più complessi. Salerno non rinnega il proprio percorso, ma il sentimento che prevale nei suoi ricordi, in ultima analisi, è l’amarezza della delusione.