Il successo di Elena Ferrante negli Stati Uniti continua a crescere e a meravigliare. Soprattutto considerando che non si sa chi sia. Le “Neapolitan novels”, il nome con cui in America hanno ribattezzato la tetralogia dell’Amica geniale, si fanno trovare anche dagli occhi meno attenti: sono sugli scaffali di qualunque libreria, su ogni vagone della metropolitana, in mano a chi legge sulle panchine al parco, e quasi ovunque ci sia un lettore.
La storia di Lila e Lenù occupa quattro libri che in realtà sono un unico grande libro che segue la loro vita e la loro amicizia dall’infanzia fino alla vecchiaia. Nel farlo, si snoda per molte strade della storia d’Italia, toccando gli anni ‘70, la politica, le università e il mondo letterario e sempre tornando al luogo in cui tutto è iniziato: il rione povero di Napoli dove le due amiche sono nate e cresciute, creando un legame indissolubile che è insieme una cosa fortissima e pura e un grande tormento.
Il quarto e ultimo capitolo, "Storia della bambina perduta" ("The Story of the Lost Child"), è uscito negli Stati Uniti a settembre, ed è stato incluso dal New York Times nella classifica dei dieci libri del 2015. La tetralogia ha venduto finora 750.000 copie, come riportato dal Financial Times a metà dicembre. E proprio il Financial Times ha inserito Elena Ferrante nella sua lista delle “Women of 2015”, accanto al governatore della Federal Reserve Janet Yellen e alla first lady Michelle Obama (e a un’altra italiana: Samantha Cristoforetti). La Paris Review, rivista letteraria tra le più prestigiose al mondo, nel numero della scorsa primavera ha fatto una cosa fino a quel momento mai avvenuta: ha dedicato una delle sue celebri interviste (le Art of Fiction) a una scrittrice italiana: Elena Ferrante. Prima di lei, solo quattro italiani, e tutti uomini: Italo Calvino, Primo Levi, Alberto Moravia e Umberto Eco.
Non c’è giornale o critico che non se ne sia occupato, su questa sponda dell’Atlantico e soprattutto non c’è giornale o critico che non ne abbia detto bene, più che bene, che non abbia lodato la sua scrittura, le sue storie, i suoi personaggi. E anche la sua scelta di nascondersi dietro un nom de plume, lasciando che ad andare nel mondo siano i suoi libri, e mai lei in quanto autore.
Un’unanimità a cui non si sottrae nemmeno il critico letterario tra i più famoso d’America, la temutissima Michiko Kakutani del New York Times: “Elena e Lila, le due eroine della stupefacente tetralogia napoletana della Ferrante, sono una di quelle indimenticabili coppie della letteratura e del cinema che si definiscono a vicenda ed entrano nell’immaginario collettivo come un duo indivisibile”, scrive Kakutani. “Come il principe Hal e Falstaff, Vladimir ed Estragon, Butch Cassidy e Sundance Kid, o Thelma e Louise”.
Le Neapolitan novels sono pubblicate negli Stati Uniti da Europa Editions, la casa editrice americana dell’editore italiano della Ferrante, Edizioni E/O.
Sandro Ferri e Sandra Ozzola - fondatori delle Edizioni E/O e marito e moglie - sono gli unici, insieme alla loro primogenita Eva, a conoscere la vera identità dell’autrice. Sono loro, infatti, ad averla intervistata per la Paris Review nella prima ed unica intervista concessa di persona (ne concede raramente e di solito via e-mail, come quella rilasciata due settimane fa al Financial Times).
Chi è Elena Ferrante?, si chiedono un po’ tutti. In Italia la risposta più frequente è Domenico Starnone (lo scrittore ha dichiarato "Quando morirò si scriveranno sei righe. Nelle prime tre: ha fatto l’insegnante. Nelle ultime: a lungo si è sospettato che fosse Elena Ferrante. Quello che sta in mezzo, romanzi, sceneggiature, pezzi di vita, tutto spazzato via"). Si vocifera anche che possa essere Anita Raja, traduttrice dal tedesco (a lei si deve la traduzione di buona parte dell’opera di Christa Wolf per Edizioni E/O) e moglie dello stesso Starnone. In America c’è invece chi pensa che Elena Ferrante sia la sua traduttrice americana Ann Goldstein, nonostante lei sottolinei “No, nemmeno io conosco la sua vera identità: abbiamo sempre comunicato tramite l’editore” (qui l’intervista di Time alla traduttrice).
La Ferrante, dal suo canto, spiega alla Paris Review che non è l’apparire, ma lo scrivere che “richiede la massima ambizione, la massima audacia, e una disobbedienza programmatica”.
“Io la immagino come qualcuno che conosce bene la tentazione di scrivere qualcosa che sia vicino alle nostre radici”, dice la scrittrice Emily Gould sul New York Times. “Qualcuno che ha fatto di tutto per proteggere da se stessa le persone che ama, anche se questo ha comportato la rinuncia a tutto ciò che di buono poteva significare uscire allo scoperto ed essere il volto del proprio lavoro. Forse è una scelta saggia, ma dai libri risulta chiaro, o almeno è chiaro per me, che questa scelta non ha protetto nessuno fino in fondo. Forse niente può farlo”.