L’essere madre non è una condizione da cui puoi fuggire. Lo impara Leda, una professoressa universitaria di quasi cinquant’anni, single, che va in vacanza al mare. Da sola. Leda è madre di due figlie grandi che vivono con il padre in Canada. Con loro ha avuto, fin dall’inizio, un rapporto freddo e distaccato; le ha abbandonate per la carriera, quando erano piccole. Leda è fatta così e sa farsene una ragione. Almeno così crede. Poi, inaspettatamente, arriva sulla spiaggia una chiassosa e numerosa famiglia napoletana, tatuata e camorrista. Leda osserva la giovanissima madre con la sua bambina piccola, una mamma apparentemente felice e soddisfatta. E compie un’azione drastica che travolge non solo la felicità della giovane mamma napoletana, ma anche il suo fragile equilibrio.
La figlia oscura è stato il primo libro di Elena Ferrante che ho letto. E ho subito trovato coraggioso ed estremamente moderno questo ritratto di donna che ammette a se stessa, prima ancora che alla società, che la sua vita senza figli sarebbe stata forse, anzi sicuramente, più felice. Una madre che abbandona i propri figli è tutt‘ora uno dei pochi tabù della nostra società, figuriamoci nella cattolica Italia (e figuriamoci al Sud), dove la maternità, almeno in teoria, è considerata ancora uno dei valori cardine. Si tratta di un racconto sobrio, chiaro, analitico, costruito davanti a uno sfondo classico italiano (almeno per me che sono straniera): la villeggiatura al Sud, che con i suoi cieli plumbei e l’afa soffocante diventa lo scenario perfetto per una bella depressione post-post-partum.