Mi sono chiesta perché ho deciso di proporre e organizzare il Joan Didion Day in onore della scrittrice californiana che qualche giorno fa ha compiuto 81 anni, e non sono riuscita a darmi una risposta. Il file con il titolo “Perché un Joan Didion day?” è rimasto aperto sul mio pc per quasi un mese, in attesa di risposte. Mentre scrivo è l’8 dicembre e mancano meno di 24 ore alla messa online di questo pezzo che inaugurerà la giornata che Finzioni dedicherà alla scrittrice. A questo punto devo necessariamente, volente o nolente, trovare le risposte, mettermi seduta e interrogarmi sul motivo che mi ha portato a questa scelta, alla lettura e rilettura dei suoi libri, alla sensazione di piacevole turbamento che le sue storie mi regalano sempre, e che continuano a regalarmi anche a distanza di mesi.
Il motivo più banale, ma affatto di secondo piano, potrebbe essere la sensazione – assolutamente personale – che la sua presenza nell’ambito letterario internazionale, la sua scrittura e la sua grandezza, fatichino ad arrivare al grande pubblico.
Non al mondo editoriale, che l’ha assunta a icona letteraria, l’ha già eletta a regina vivente della pagina scritta. Mi riferisco ai lettori, in generale, i grandi numeri, che sembrano scarseggiare. Joan Didion sembra non riuscire a raggiungere le vette di popolarità di altre sue colleghe, nemmeno a fronte della stampa che ne parla sempre, nemmeno a fronte della moda che la catapulta sulle pagine pubblicitarie e la nomina icona indiscussa di stile; i cosiddetti lettori forti la conoscono, a volte la leggono; tutti gli altri, senza la presenza di un riconoscimento mondiale, di una fascetta come vincitrice di un premio famoso, faticano a farla loro, ad accoglierla.
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Una solitudine che ci riguarda
Per la prima volta mi ero confrontata con la prova tangibile dell’atomizzazione, la dimostrazione che le cose cadono a pezzi: ero andata a San Francisco perché non riuscivo a lavorare da mesi, paralizzata dalla convinzione che scrivere fosse un atto irrilevante, che il mondo che conoscevo non esisteva più. Se mai avessi lavorato di nuovo, sarebbe stato necessario per me venire a patti col disordine.
Quando Joan Didion scrive questa frase, è la fine degli anni Sessanta e ha circa 35 anni. Lo scrive nella premessa di Slouching Towards Bethlehem (Verso Betlemme, pubblicato in Italia da Il Saggiatore nel 2008) e ancora non ha la minima idea di quello che dovrà affrontare. Quello che scrive è la premonizione di perdita che l’accompagnerà per tutta la vita, attraverso città e decenni, fino alla sua concretizzazione. La perdita intesa non solo come fatto in sé, ma soprattutto come voragine sul dolore, come solitudine.
Quando avevo sette anni ebbi un’epifania. Ero seduta nel chiostro di una chiesa con la mia classe di catechismo, pronta ad affrontare la prima confessione. Mentre mi chiedevo quali peccati potesse mai avere una bambina di sette anni da dover confessare in pompa magna, ricordo di aver pensato una cosa che ancora oggi mi lascia un senso di grossa inquietudine. Dissi a me stessa che se nessuno poteva essere me, vedere con i miei occhi, parlare e ascoltare la voce della mia testa e vivere le cose esattamente come le vivevo io, allora ero sola e sarei stata sola sempre.
Il senso di perdita, la paura di lasciare indietro qualcosa, mi ha accompagnato sempre, nel corso degli anni, e mi vive accanto anche ora. Sarà per questo che mi sono innamorata subito di Joan Didion e di ogni suo personaggio.
Charlotte Douglas di Diglielo da parte mia ha perso molto, Inez Victor di Democracy ha lasciato indietro molto, Maria Wyeth di Prendila così ha disseminato molto. Sono tutte donne molto sole, a loro modo, così come è sola la Joan Didion che scrive L’anno del pensiero magico e Blue Nights, quando perde, a pochi mesi di distanza, l’amore della sua vita e la figlia che avevano adottato insieme. Joan Didion sperimenta il dolore, profondissimo, e non ha armi con cui affrontarlo. Solo tempo dopo prende l’unica arma che ha a disposizione e la usa. Se per Annie Ernaux la scrittura è una lotta contro l’oblio, per Joan Didion è stata l’arma in grado di salvarla, di farla sopravvivere. Inizia l’autoanalisi, iniziano le recriminazioni, le giustificazioni, gli escamotage che la mente prova a creare. Inizia la rievocazione di ogni dettaglio, ogni ricordo, perché i dettagli e i ricordi sono l’unica cosa che fanno rimanere le persone che non ci sono più, che proteggono dalla paura di una perdita nuova, come quando non riusciamo a stracciare lettere, a cancellare mail, a buttare biglietti del cinema e post-it appesi al frigorifero, per paura che solo così le cose possano tornare indietro. E sono anche “tutto ciò che non vuoi più ricordare”.
La casa è vuota. Joan Didion è sola. La perdita che aveva immaginato, alla fine era arrivata, tutta insieme, di colpo.
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Il suo modo delicato di toccare le cose.
I libri di Joan Didion che ho letto sono intonsi. Non ho sottolineato mezza riga. Mi succede sempre così con i libri che amo di più e con i suoi in particolar modo. Ho paura di rovinare un momento, di rompere qualcosa, come se la sua figura minuta, il suo equilibro a fatica rimesso insieme, in qualche modo, potesse essere compromesso da un qualsiasi mio (nostro) gesto, una qualsiasi intromissione nel suo castello a più piani fatto di carte da gioco, che basta un soffio ed è tutto testa all’aria.
Delicatezza, è la parola a cui penso se penso a lei. Non penso solo a quando ha iniziato a capire che stava invecchiando e aveva paura di rompersi, o di alzarsi da una sedia. E non intendo solo per il suo essere minuta e magrissima; è una delicatezza atavica, avulsa dalla sua corporeità. Parlo del modo in cui tocca le cose, in cui tocca noi mentre la leggiamo, del modo in cui tocca se stessa nel mondo.
Joan Didion è un paradosso, perché la delicatezza con cui racconta il mondo si sposa con un’intimità e un’empatia che di solito hanno più a che fare con l’intrusione e la potenza. E la distanza che mette nei suoi romanzi riesce a combinarsi con il fatto che leggendo quei suoi romanzi siamo catapultati completamente dentro quelle storie. Joan Didion è poliedrica, eclettica. È una scrittrice, una giornalista, una sceneggiatrice. Scrive saggi, memoir, romanzi. Combina prosa e giornalismo. È insicura e contemporaneamente estremamente determinata. Sa essere egoista e dolce. Riesce a essere molte cose insieme.
E non so spiegarvi perché oggi abbiamo deciso di dedicare a lei una giornata intera. Ho i miei motivi, forse difficili da riassumere in poche righe, ma forti e massicci. Ma so che mi piacerebbe che trovaste i vostri. Vorrei che questa giornata fosse una finestra su quello che Joan Didion può essere per voi.
Spero che in qualche modo lo sarà il pezzo di Annalena Benini, uscito sul foglio lo scorso settembre e che ci ha dato il permesso di pubblicare, spero lo saranno le recensioni di tre dei suoi romanzi (Diglielo da parte mia, Democracy, Prendila così). O il pezzo sulla sua produzione saggistica (Verso Betlemme e The White Album), o ancora l’articolo su cosa ci ha insegnato Joan Didion del dolore, o il saggio che Andrea Morstabilini, editor della casa editrice Saggiatore e curatore di The White Album, ultimo volume della scrittrice di Sacramento uscito per loro, ha scritto per noi.
Spero, speriamo, che sia la chiave per una vostra serratura interiore – come lo sono gli scrittori che amiamo, com’è la letteratura stessa – ma andrebbe bene anche se fosse solo un nome nuovo da scoprire, o un nome da approfondire, un regalo che una persona fa ad un’altra quando parla entusiasta di qualcosa che le è piaciuto e che vuole condividere a tutti i costi.
E chi lo riceve, con quella cosa, ci fa poi quello che vuole.
Mi sembra sacrosanto.