Un mattino di fine gennaio, anno di grazia 1991, Angelo Angelastro, giornalista Rai, riceve una telefonata. «Se n'è andato con la serenità negli occhi». Il giornalista ha difficoltà nell'immaginare Filippo Salerno, capo della milizia fascista in Africa, «privo di forze». Aveva imparato a conoscerlo. Ne amava la caparbietà, la testardaggine, l'estrema sincerità. Aveva registrato su nastro le sue esperienze di guerra prima in Etiopia (1936) poi in Libia. Lo aveva ascoltato cercando di cogliere i segreti di un uomo che aveva aderito al fascismo e che alla fine ne aveva aderito al fascismo e che alla fine ne aveva intuito gli odiosi fini. Una persona diversa da lui ma con ma con cui, per una parentesi, di vita aveva condiviso uno spazio d'ascolto. E ora improvvisamente quell'uomo che tanto lo aveva affascinato non c'era più.
«Gli sarebbe piaciuto sapere se credevi alle sue storie» chiede l'amico ad Angelo Angelastro, dopo aver comunicato la luttuosa notizia. Domanda insidiosa, alla quale il giornalista si sottrae. Poi arriva una nevicata a Roma, siamo già nel 2012, e Angelastro riprende in mano quelle registrazioni datate 1982. Nei ricordi di Filippo Salerno c'è la sciagurata scorribanda italiana in Africa Orientale, le donne e gli uomini incontrati, le contraddizioni di un impero che Mussolini ha imposto agli italiani come se fosse una gita fuori porta. Non sono nascoste nemmeno le violenze e l'esotismo.
Tutte quelle parole erano l' ad interrogarlo. Che farne? Angelastro sceglie una forma particolare: crea un memoir in prima persona, dove i fatti riportati corrispondono al racconto di Salerno. A tratti nella lettura si prova fastidio, ma resta una testimonianza utilissima per chi vuole attraversare tutte le ambiguità di una storia patria così poco conosciuta.