Di fronte alla violenza e all'ingiustizia l'azione umanitaria può restare neutrale? Alle vittime di un conflitto occorre fornire cibo e medicine o invece i mezzi per difendersi? Attorno a questo dilemma Jean-Christophe Rufin ha costruito il suo ultimo avvincente romanzo, "Check-point" (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, e/o, p. 299, 18 €). Lo scrittore francese sa di cosa parla. E' stato tra i fondatori di Médecins Sans Frontères e ha condotto molte missioni in zone di guerra. Ad esempio in Bosnia, nei primi anni Novanta, quando infuriava il conflitto scatenato dai serbi contro le altre comunità. Proprio la ex Jugoslavia in preda alla violenza è lo scenario su cui si muovono i cinque giovani protagonisti, quattro uomini e una donna alla guida di due camion di materiale umanitario. Solo che ciascuno di loro ha intrapreso quel viaggio pieno d'insidie per motivi diversi. E alla fine, di fronte alle dolorose contraddizioni della guerra, dovrà fare i conti con scelte in precedenza inimmaginabili. Il viaggio umanitario si trasformerà così in una lotta all'ultimo sangue. A metà strada tra romanzo d'avventura e romanzo di guerra, "Check-point" - che a tratti evoca le tese atmosfere di un classico come "Il salario della paura" - tiene il lettore con il fiato sospeso e lo costringe, tra colpi di scena e identità nascoste, a seguire la lenta evoluzione dei protagonisti alle prese con le loro coscienza, le loro paure e le loro illusioni.