Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la Letteratura 2015, scrive “Preghiera per Černobyl” nel 2001, il libro esce il Italia nel 2004 edito da “e/o”, tradotto da Sergio Rapetti.
Il disastro di Černobyl ci fu il 26 Aprile del 1986, 23 minuti e 58 secondi dopo l’una di notte in una città che molti pensavano fosse in Ucraina, mentre è ai confini della Bielorussia. Era ancora l’epoca dell’Unione Sovietica, quando i confini fra gli stati controllati dal governo sovietico erano una mera teoria, quando nessuno poteva farsi troppe domande. Neppure i liquidatori, chiamati alla centrale nucleare, si chiesero cosa stessero andando a fare né immaginavano a quali rischi si stessero esponendo.
Nessuno lo sapeva e quelli che compresero cercarono di nascondere, minimizzare, negare affinché l’opinione pubblica mondiale si allarmasse il meno possibile; nel frattempo la nube tossica si allargava, sovrastava l’ Europa, raggiunse il Giappone e con lei cresceva il panico. Ma la Aleksievič, come lei stessa scrive, non parla di Černobyl:
Questo libro non parla di Černobyl in quanto tale, ma del suo mondo. Proprio di ciò che conosciamo meno. O quasi per niente. Ad interessarmi non è l’avvenimento in sé, vale a dire cosa sia successo e per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto,il mistero. Černobyl è un mistero che dobbiamo ancora risolvere…..Questa è la ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. Per tre anni ho viaggiato è fatta domande a persone di professioni, generazioni e temperamenti diversi. Credenti e atei. Contadini e intellettuali. Černobyl è il principale contenuto d loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro……”.
Quel 26 Aprile nacque anche una nuova categoria di esseri umani, i černobyliani, nuovi appestati dai quali tutti stanno lontani, che fanno paura persino a chi dovrebbe curarli; solo l’amore di una donna o di una madre può superare quelle barriere e vedere in quei mostri coloro che hanno amato.
Un libro che non è un romanzo, ma la testimonianza agghiacciante e tutta umana di chi appartiene ad una terra cancellata da ciò in cui tutti i russi credevano per fede. Un popolo ateo che ha fatto della scienza il suo credo e che dalla scienza è stata tradita. Una svolta epocale, la fine di una metafisica, l’ennesima morte dell’ultimo dio.
La scrittrice ascolta da osservatore esterno senza commentare perché certe parole non vanno spiegate, certi sentimenti, pur assolutamente nuovi, scavano solchi dentro ognuno di noi, un nuovo Olocausto imputabile a chi ha usato gli uomini come mezzo. Alcuni avevano avuto il sentore che gli uomini potessero anche vivere in un altro modo:
Lavoravo con i tedeschi così ho potuto vedere il comportamento di gente diversa da noi, appartenente ad un altro popolo….
Da un lato i tedeschi chiedevano protezioni idonee e, non ricevendole, chiedevano di andare via; dall’altro i bielorussi lavoravano a mani nude per poi sviluppare forme terribili di cancro e mettere al mondo figli con malformazioni raccapriccianti. Nemmeno l’immagine, per molti sacra, della maternità viene risparmiata:
Una giovane donna è seduta ad una panca davanti a casa, allatta il bambino al seno…….Latte e cesio……Una mamma di Černobyl.
Svetlana Aleksievič è stata accusata di comportamento anti- sovietico, i suoi libri messi all’indice, solo grazie a Gorbaciov ha potuto pubblicare. Prima del Nobel, ha ricevuto molti premi letterari, per aver fatto conoscere al mondo una realtà dopo tanti anni ancora a rischio. L’immenso sarcofago che ha seppellito il reattore non è detto che tenga per sempre, nuove catastrofi non possono dirsi scongiurate, mentre la terra che ha coperto altra terra infestata dalle radiazioni continua a produrre scorie. La gente muore, città e villaggi sono spariti, di quella moderna ecatombe rimane il ricordo custodito nei cuori, nella memoria, nella selvaggia e incancellabile bellezza di una terra che resta, indifferente al male che l’uomo fa ai suoi simili.
Una lettura agghiacciante e struggente al tempo stesso, un libro da proporre agli studenti, un’occasione di riflessione efficace come poche; ma, oltre i pregi innegabili, sembra doverosa una precisazione: non è un romanzo e non è neppure un’opera letteraria nel senso vero e autentico del termine. È il risultato di un’inchiesta che giustamente va fatta conoscere al mondo intero; ciò nonostante il Nobel non si spiega, sembra un riconoscimento eccessivo e non meritato per la qualità letteraria, senza nulla togliere ai temi trattati. Dopo la delusione-Modiano, un altro Nobel ad una giornalista eccellente, non ad una scrittrice. Viene da chiedersi perché la Fallaci non abbia vinto il Nobel (scriveva anche molto, ma molto meglio) e quanto debbano disimparare a scrivere Murakami e Roth per sperare, finalmente, di vincerlo; forse arriverà il momento in cui uno scrittore dovrà sentirsi orgoglioso e soddisfatto di non essere stato notato dalla giuria svedese? Ai posteri l’ardua sentenza.