Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Il primo romanzo di Muriel Barbery

Autore: Diego Freri
Testata: CREMAONLINE
Data: 23 febbraio 2009

"Quando prendevo possesso della tavola lo facevo da monarca”: con queste parole la Barbery inizia il suo libro in cui si raccontano gli ultimi istanti di vita di un critico culinario che ha trascorso l’intera esistenza a mangiare cibi, a giudicarli e criticarli, rinunciando volutamente alla sua famiglia che prova disprezzo e odio nei suoi confronti. È un romanzo a più voci, ogni capitolo è occupato dalle riflessioni del critico stesso e del carosello di personaggi (moglie, figli, nipoti) che devono di malavoglia recarsi da lui per concedergli l’estremo saluto. È un libro in cui per intere pagine si parla di ogni tipo di cibo, delle sensazioni organolettiche scatenatesi, del piacere del gustare alla ricerca di un sapore primigenio perso nella memoria del nostro critico, che desidera nutrirsi di questo nell’istante prima di morire. Naturalmente le descrizioni e gli elenchi dei cibi, dettagliati e scritti con termini mai lasciati al caso, ma sempre ben ponderati, non hanno l’intento primario di ingolosire i lettori e far soffrire quelli a dieta, ma sono una metafora della ricerca del senso dell’esistenza, sono portatori del messaggio dell’autrice che, come già ne L’eleganza del riccio, suggerisce di non lasciarsi ingannare dalla semplicità e dalla modestia di persone e cose perché proprio dietro a queste si nasconde un preziosissimo tesoro.

È un invito, quindi, all’analisi, alla scoperta, al superamento della superficie e soprattutto alla consapevolezza che, spesso, nella vita, ciò che si è disprezzato, criticato e snobbato è proprio ciò che, invece, illumina l’esistenza, la rende fertile e serena, permettendo un trapasso dolce perché si è trovato l’anello che non tiene (per usare parole di Montale): “Il punto non è mangiare né vivere, è sapere perché”. Certo la ricerca di quest’essenza ha portato il critico a compiere delle rinunce, a perdere gli affetti tradizionalmente più cari, a farsi odiare. Forse in questo la Barbery vuole trasmettere un altro messaggio al lettore: la ricerca del senso dell’esistenza per quanto fondamentale non deve rendere l’uomo misantropo e solitario, ma deve esserci un giusto equilibrio tra le parti. Non a caso un capitolo centrale è affidato alle riflessioni di Lotte, la nipotina del critico, che racconta un quadro familiare dalle tinte scure e che conclude i suoi pensieri in questo modo: “So che sono tutti scontenti, perché nessuno ama la persona giusta, come dovrebbe essere, e non capiscono che ce l’hanno soprattutto con se stessi. Tutti pensano che i bambini non sanno niente”. Viene da chiedersi se i grandi sono mai stati bambini.