«Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma» di Eduardo Savarese è un libro insolito, non per l’argomento trattato, il rapporto tra un omosessuale e «gli altri», ma perché c’è un destinatario ben individuato, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, entità presente e sfuggente, un tutto e un nulla che, per il vero, non permea più la società italiana nel modo totalizzante di un tempo, ma che, comunque, esprime ancora un potere temporale e spirituale di cui molti, credenti e no, tengono conto. Il singolare approccio di Savarese si fonda sul logos, quello di Eraclito, cioè la ragione, e quello cristiano, cioè «verbum Dei». I termini sembrano equivalenti, ma non lo sono. Declinate nel senso del logos-ragione, le argomentazioni dell’autore sono coerenti, condivisibili, ma, come dire, inani e virtuali. Giacché rimangono ristrette nell’ambito della sua interiorità, dell’interiorità dei suoi simili di «gender» e dell’interiorità di tutti coloro che, pur non essendo omosessuali, hanno attraversato stagioni di isolamento familiare e di ostracismo sociale. Ma non superano il valico dell’universalità, non diventano perciò ragioni di tutti. Almeno per ora, «hic et nunc». Sul lato opposto c’è il logos «verbum Dei»: i suoi contenuti, la sua forza di penetrazione delle coscienze, la sua universalità, sono lì latenti ed effettivi, virtuali e reali, in una sorta di schizofrenico irrisolto bipolarismo presente in una società, l’italiana nella quale convivono le due visioni. Prevalente quella dell’ostracismo per scelta della Chiesa-gerarchia, che, al di là di ogni illusione, è, in senso ontologico, ferma e trattenuta a sé non dal «verbum Dei», ma dall’«hominis voluntas», la volontà dell’uomo gerarchico attraverso il quale questo speciale logos si manifesta. Cioè, attraverso l’interpretazione dell’interprete che ne riceve titolo, appunto, dalla gerarchia. Non intendo, però, dare una sensazione errata: la «Lettera...» di Savarese (presentazione oggi alle 18,30 alla libreria Ubik di via Oberdan con l'autore e Chiara Cacciani) non è un concettoso trattato sull’omosessualità e sui suoi rapporti con la Chiesa. È la palpitante testimonianza di un’omosessualità coniugata e coniuganda con la religiosità cattolica, e quindi, drammaticamente in contraddizione con il mondo cui vorrebbe riferirsi alla ricerca di misericordioso ricetto e consolazione. Una ricerca che riguarda tutti coloro che sentono il bisogno di Dio e che ha spinto Savarese sulla via di Lourdes, in cerca di conferme e ispirazioni. Un libro, questo di Savarese, per molti versi dannunziano, letterario e coinvolgente, con una elevata caratura estetica, identificabile nella capacità di introspezione e di manifestazione-narrazione. «...dopo l’Eucaristia mi sentivo prendere da tentazioni invincibili, sicché mi veniva il dubbio dell’efficacia del Sacramento, quanto meno per quanto riguardava me. Il frate, uno splendido uomo che aspettava in confessionale leggendo libri e cantava la messa con voce tenorile purissima, mi rassicurò che la caduta perpetua è la realtà dell’umano... Dio non vuole la prostrazione interiore...».
Niente di strano, naturalmente, solo l’espressione rituale della «storica saggezza» ecclesiastica che concede il perdono sapendo di doverlo rapidamente reiterare. È anche questo il Dio cristiano dell’amore cristiano. E il riconoscimento dell’amore omosessuale come uno degli amori di Dio, rimane là nella penna e nella mente di Savarese, non riuscendo, per ora, a scalfire la solida volontà della Chiesa, ancorché di Francesco. Dunque, accogliamo con intellettuale condivisione, la «Lettera...» di Eduardo Savarese. Cogliamone il valore loico e morale, la passione civile e religiosa, il senso di giustizia mondano e spirituale, e collochiamola, però, non tanto e non solo tra i libri di denuncia etico-sociale, quanto tra le «Opere di Misericordia» come una tela narrativa ed espressiva simile, per certi versi, al dannunziano «Il peccato di maggio ... pe’l bosco andavamo ...», un '900 sensuale e illimitato, rispetto al quale i lacci e i lacciuoli della Chiesa romana rimangono manifestazioni potenziali, incapaci di incidere sul tessuto umano. E questa non è una sottovalutazione del tormento dell’autore, ma una sua storicizzazione, come storicizzano sempre le grandi ed efficaci narrazioni. La metastoria del nostro tempo particulare, cioè italiano, sarà letta anche attraverso questo testo di Savarese, celebrale e passionale. Non rimarrà negli scaffali d’una libreria, ma nella coscienza del lettore.