Quando si comincia a leggere un memoir, in genere sono due le sensazioni preponderanti: la curiosità da voyeur che è innata in tutti noi, specie se siamo avidi lettori di storie, e il dubbio che ne valga la pena.
Lo stesso Angelo Angelastro, giornalista e reporter, se lo pone nel lungo prologo alla narrazione vera e propria di Il bel tempo di tripoli (E/O Edizioni). Ma, come un esploratore che sa di aver trovato un tesoro, l’autore sa che la storia di Filippo Salerno, avvocato, fotografo, giornalista dei tempi delle campagne coloniali in Africa, è da svelare.
Sappiamo molto dei fatti e degli eventi che riguardano la seconda guerra mondiale, forse un po’ meno di quelli avvenuti in Etiopia, Eritrea, Libia. E i reduci, gli scampati, i testimoni diretti sono ormai quasi tutti passati a miglior vita. E poi diciamolo: la storia raccontata nei libri ha un solo punto di vista, quello dello storico giudicante gli eventi. Angelo Angelastro ci racconta invece la storia di una vita che gli eventi li ha attraversati, la storia di un uomo, e ci dà l’opportunità di non giudicare.
La narrazione è fatta in prima persona, e a volte ci si confonde, non si riesce più a distinguere dove termina la voce del protagonista narratore e dove comincia la penna dello scrittore narrante. Chi ha vissuto ad Addis Abeba, a Tripoli, Angelastro o Salerno? E quella ironia soffusa, quel garbato descrivere le brutture tanto da farle sembrare accettabili, sono frutto di una fedele trasposizione o appartengono al filtro autorale?
Ho amato la lettura di questo libro per la sua semplicità, per la sua capacità evocativa a me che quegli anni non li ho vissuti, solo ascoltati da voci autorevoli. La storia non è qualcosa di astratto, e questo racconto ce lo dimostra. Filippo Salerno era una Camicia Nera, ma prima di questo era un uomo, un uomo del Sud, passionale e intrepido, scanzonato e ironico, illuso e disilluso.
La sua abilità di fotografo la si può percepire nelle sue descrizioni dei luoghi, quell’Africa che, nonostante la guerra, nonostante il pericolo costante, lo attirava a sé come un’amante, come un male necessario per superare i propri limiti e vivere.
Mal d’Africa lo hanno sempre chiamato, e leggendo questo memoir si riesce a intuire il perché. Si sorride, si ride, ci si commuove leggendo questa storia, perché la forza narrativa di Salerno ci porta all’immedesimazione: siamo tutti esseri umani, siamo tutti lì con lui e abbiamo paura, e soffriamo, e ci domandiamo perché, e cerchiamo di costruire quotidianità nell’eccezionalità.
Calpestiamo con lui quelle terre inospitali ma vergini, dove i ravanelli crescono in otto giorni e ogni pianta di girasole produce fino a cinque chili di semi, ma non c’è mercato perché mancano le vie di comunicazione. Sentiamo le grida degli abissini torturati dall’iprite e i lamenti delle loro donne in lutto e soffriamo con loro ma, in sottofondo, non ci pare osceno ascoltare le note di un fox trot o di Rabagliati. Questa era la vita (e la morte)in Africa, una vita sospesa eppure tanto ammaliante da giustificarsi da sé, impietosirsi e infine anche perdonarsi.
Mi ha stupita, nella narrazione, la presenza di tante domande, il più delle volte senza risposta. Eppure i fatti esistono, li conosciamo. Sembra quasi che il protagonista stesso abbia dei dubbi su ciò che sta accadendo, sulle motivazioni che hanno portato gli artefici di quel pezzo di storia a compiere determinate scelte, sulle sue personalissime motivazioni. Chi pone realmente quelle domande? Salerno, che tenta fino alla fine di giustificarsi, o Angelastro, che vuole offrire a Salerno, e quindi anche al lettore, una via d’uscita onorevole? Perché si racconta del fascismo e delle guerre coloniali, non dimentichiamolo. Ma noi non li abbiamo vissuti, solo giudicati. E nel leggere questo memoir, la leggerezza con cui è narrato, che a volte sconfina nella frivolezza, si riesce ad avere quel giusto distacco dagli eventi nudi e crudi e a scorgere solo l’uomo che li ha vissuti, la sua personale epopea.