Il Premio Nobel alla Letteratura 2015 è stato assegnato alla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič.
Per l'ennesimo anno i vari Roth, Murakami e McCarthy sono stati accantonati per far spazio a un nome considerato di nicchia.
La vincitrice di quest'anno apre però delle dinamiche che necessitano un approfondimento, in modo da evitare la solita rivolta dell'ignoranza che gridava e ha gridato allo scandalo per l'esaltazione di penne come quella di Modiano o di Alice Munro.
Bisogna accettarlo, il Premio Nobel è stato vinto da una GIORNALISTA.
Una cronista che nella sua carriera ha scritto libri di denuncia, tramite i quali analizzare e mettere a confronto alcuni momenti storici (a lei cari) con le numerose testimonianze da lei raccolte.
Ecco quindi la prima domanda incriminata sulla quale riflettere:
"Può il giornalismo essere alta letteratura?"
Personaggi nostrani come Oriana Fallaci e Curzio Malaparte molto probabilmente avrebbero risposto all'ardua questione con un sonoro sputo e una dose d'indignazione non trascurabile.
La letteratura è testimonianza romanzata anche della storia dell'uomo, il suo rapporto con la storia è fraterno, è legato da radici comuni, innegabili e imprescindibili.
La Aleksievič par aver scritto inchieste romanzate adottando un genere letterario personale da lei definito "romanzo di voci". Sottolineo la parola -romanzo-, una parola che con -saggio- e -articolo- ha poco a che fare.
Da questa banalissima constatazione si apre una seconda questione relativa alla valenza di questa assegnazione.
"Si tratta di un Nobel giusto?"
Prima ancora di conoscere questa autrice e di capire quanto sia importante il suo contributo, non posso nascondere di aver assistito a una scelta che POTREBBE rivelarsi atipica.
A prescindere dal merito, il Nobel (soprattutto quello letterario) dovrebbe, oltre i suoi valori variabili, anche essere lo specchio del nostro presente, dovrebbe rappresentare la tradizione e la cultura del popolo a cui la penna vincitrice è legata (cosa che l'autrice bielorussa potrebbe fare in parte).
Guardo quindi il popolo bielorusso con le sue tradizioni burrascose, il quale vive ancora nel passato (grazie anche alla sua condizione attuale). Vive nelle sua storia e nei suoi dolori e l'opera della Aleksievič non fa altro che sottolineare (giustamente) questo.
Con questa assegnazione abbiamo fatto un salto di dieci/vent'anni nel passato, un Nobel con un sguardo melanconico, un Nobel potenzialmente non attuale (nonostante la storia stessa lo sia) e che mette sotto il naso del lettore temi storicamente datati come Cernobyl, la guerra afgana e il crollo dell'Unione Sovietica.
Il racconto seppur passato e rappresentativo che sia, in ambito di Nobel non deve essere solo la fotografia di un periodo, deve diventar un urlo attuale.
"La domanda è inevitabile: è una tragedia giapponese o dell’intera umanità? Il disastro atomico ha o non ha incrinato la nostra idea di civiltà? E i nostri valori? La paura è un’ottima insegnante. La prima lezione è stata Černobyl’. E di Černobyl’ parlava già la Bibbia…"
afferma la Aleksievič nell'introduzione di Preghiera per Cenrobyl.
Resto quindi con la speranza che romanzi come I Ragazzi di Zinco, Incatenati dalla morte (Edizioni e/o) e inchieste come Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) sappiano proporre una trattazione e una riflessione quantomeno attuale.
Sarebbe bello scoprire una penna che fa del passato la sua arma per affrontare il presente. Sarebbe bello un Nobel che guardi al presente con gli occhi del passato, una letteratura che ci sappia aiutare anche nel quotidiano, così come è sempre stato.
Scopriremo molto presto se Svetlana Aleksievič premiata “per la sua opera polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo” ci sia riuscita.