Una grande riconoscimento, il più importante e prestigioso al mondo, e quel suo assoluto bisogno di normalità. Il Premio Nobel arriva all’improvviso, di solito con un colpo di telefono al vincitore, che può essere svegliato nel cuore della notte se vive oltre-Oceano o informato mentre è preso da altro nel suo vivere quotidiano, come una persona qualunque. Un premio che è così – prendere o lasciare - e la sua grandezza sta anche in questo. Guardate ad esempio il Nobel per la Letteratura, uno dei più attesi ed ambiti. La scrittrice canadese Alice Munro, “quella distaccata fornitrice di piacevolissime esperienze private”, come l’ha definita Jonathan Franzen, maestra indiscussa delle storie brevi contemporanee, fu avvisata proprio mentre dormiva, nel suo letto di casa, alle quattro di mattina. Che dire, poi, di Doris Lessing - “cantrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa” - che lo vinse nel 2007? Il premio la colse di sorpresa nella sua bella casa con giardino nel quartiere di Hampstead Heath, paradiso lussureggiante nel verde londinese, molto amato da intellettuali e star del cinema. Viveva nella più totale libertà, senza televisore, senza macchina e – ovviamente - senza telefono, tanto che la lieta notizia le fu comunicata mentre stava rientrando a casa con le buste della spesa in mano. Indimenticabile, la sua reazione: "Oh Cristo, ho vinto tutti i premi in Europa, un maledetto premio dopo l'altro. Sono proprio contenta di averli vinti tutti: ho fatto scala reale".
Passano gli anni, e la ‘tradizione’ si ripete. Anche la scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievic, vincitrice quest’anno del Nobel per la Letteratura, l’ha saputo in un momento di totale tranquillità domestica: stava stirando quando, all’improvviso è arrivata la fatidica telefonata. E’ bastato un suo tweet dal profilo personale per passare da camicie ed altri panni al mondo intero:
"Mi hanno chiamata adesso dalla Svezia per dirmi che mi hanno dato il Nobel. Sono felice, molto felice. Grazie", ha scritto in pochi caratteri.
L’Accademia Svedese – “che capisce il dolore russo”, come lei stessa ha dichiarato - l’ha scelta “per la sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”. Un riconoscimento che va a tutti i testimoni del crollo dell'impero sovietico, ai sopravvissuti di una delle pagine più importanti della storia del XX secolo e a tutte quelle persone che con le loro storie sono andate a comporre i capolavori corali della Aleksievič, rappresentando così una traccia imprescindibile per capire le mille sfaccettature della Russia dei nostri giorni. “Mi sono subito sentita circondata da grandi ombre, come Bunin o Pasternak, è un sentimento da un lato fantastico e dall’altro inquietante”, ha aggiunto la scrittrice qualche ora dopo alla tv svedese. Sessantasette anni, ex giornalista, ha scritto storie pazientemente raccolte da testimonianze tradotte in diverse lingue e pubblicate in tutto il mondo.
Indimenticabili i libri scritti su alcuni dei temi più delicati della cronaca degli ultimi anni, dalla catastrofe di Chernobyl (Preghiera per Chernobyl, edizioni e/o, il suo libro più celebre, con decine di interviste alle vittime della tragedia nucleare), alla guerra in Afghanistan (‘Ragazzi di Zinco’, sempre e/o), dalla pietra tombale sull’utopia sovietica, ossia il tema sono i suicidi in seguito al crollo dell’Urss (Incantati dalla morte) alle donne sovietiche al fronte nella Seconda guerra mondiale (La guerra non ha un volto di donna, di prossima pubblicazione per Bompiani).
Nel suo ultimo libro, ‘Tempo di seconda mano, la vita in Russia dopo il crollo Comunismo’, appena pubblicato da Bompiani (trad.ne e cura di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti) e presentato in esclusiva all’ultimo Festivaletteratura di Mantova, ha dipinto un ritratto senza cedimenti della sua terra e dei suoi uomini. Proprio durante il festival letterario mantovano, assistemmo al suo incontro pubblico in cui ribadì che quella russa, “è una cultura del racconto”.
“La mia gente vuole parlare perché viviamo in una vita spaventata e terrificante in cui per forza di cose hai la necessità di raccontare e di raccontarti a qualcuno. Io ho scelto di farlo con i miei articoli giornalistici prima e poi con i miei racconti”, disse. “Raccontare il dolore è parte integrante della tradizione russa: la sofferenza fa parte di noi e va interpretata come momento catartico. C’è il soffrire e c’è il raccontare le sofferenze. Non abbiamo mai avuto una vita normale”.
Come vive un giornalista, uno scrittore, un intellettuale nel suo Paese? “Con la nostra società totalitaria abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che deve emergere, è la protesta, anche se spesso può portare alla morte, come purtroppo è già accaduto. Ognuno sceglie la propria maniera di opporsi. Il romanticismo che ci contraddistingueva negli anni Novanta con Gorbaciov è fallito. Le strade percorse sono state ingenue e quelle da percorrere sono ancora molto lunghe”.
Continuò a parlare, sempre con quel suo distacco che ritroviamo anche nelle sue opere, dove però è voluto, proprio per cercare di non sovrapporsi a quei racconti corali che attraversano la vita di generazioni di sovietici, conservandone così la genuinità. Disse: “In Russia non c’è anarchia, ma qualcosa di peggiore. Ci sono tutta una serie di assembramenti di persone che credono in qualcosa di indefinito e queste cose stanno portando il Paese verso il baratro, ad un inizio di fascismo”. La parola che usò di più nel suo intervento fu ‘libertà’, quella che per molti anni le fu negata. L’ha usata anche oggi quando ha saputo del Nobel e le è stato chiesto che cosa farà dell’importante somma di denaro prevista per il vincitore: “Non ci ho ancora pensato. Comunque i soldi li uso in un solo modo, compro la libertà”.