Il Nobel per la letteratura 2015 non è solamente la vittoria di una donna, bielorussa, Svetlana Aleksievic, ma anche quella di un genere: il giornalismo narrativo. L’ufficiale riconoscimento che queste forme ibride di inchiesta e reportage sono a tutti gli effetti letteratura. È una tendenza, questa, non recentissima e i confini del genere sono tanto vasti quanto poco chiari e si potrebbe individuare una serie molto lunga di sottogeneri: possiamo partire almeno dal 1958 quando l’argentino Rodolfo Walsh pubblica Operazione Massacro, oppure dal ’65, l’anno di A sangue freddo di Truman Capote. Ma il giusto rilievo questo nuovo genere lo ha avuto solamente in anni recenti e, in Italia, sicuramente a partire dal caso Gomorra di Roberto Saviano.
Ma la scrittura della Aleksievic è totalmente diversa da quella à la Saviano cui siamo abituati: la presenza dell’io è completamente messa da parte, addirittura relegata fra parentesi e in corsivo in Preghiera per Černobyl’ e con l’unico scopo di sottolineare gli stati d’animo degli altri, mai il proprio. È proprio la prospettiva corale una delle caratteristiche più peculiari della scrittura polifonica della Aleksievic, un coro tragico, ma non da tragedia: non è una voce singola, unitaria, uniforme, sono tanti monologhi, ognuno esprime la propria singola voce attraverso la scrittura della giornalista e la coralità viene fuori dal montaggio di questi racconti. È quello che lo scrittore bielorusso Ales’ Adamovich, importante punto di riferimento per la Aleksievic, ha definito, parlando dei propri lavori, “prosa epico-corale”, “romanzo-testimonianza”, “il popolo si racconta”.
Puskin, in una lettera a P. A. Vjazemskij, annota che scrivere (raccontare) tutta la verità su sé stessi è fisicamente impossibile. È per questo – forse – che Aleksievich di se stessa non parla quasi mai; a lei interessa scoprire il mondo attraverso le voci umane, tutte le voci, soprattutto quelle poco ascoltate: i vecchi, i bambini, le donne, i mutilati.
E il popolo si racconta davvero nei libri di Svetlana Aleksievich, l’occhio della giornalista però si addentra in territori poco avvezzi al giornalismo classico: la sua indagine si concentra sull’anima delle persone, sui sentimenti, sulle paure e il dolore del popolo che ha vissuto la guerra (La guerra non ha volto di donna, Ragazzi di zinco e Gli ultimi testimoni che adotta la prospettiva straniante dei bambini), il disastro nucleare (Preghiera per Černobyl’), la caduta dell’URSS (in Incantati dalla morte, che racconta dei suicidi dopo la caduta dell’URSS, e in Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo).
Il pubblico italiano ha conosciuto la prosa della Aleksievic nel 2002 quando l’editore E/O ha pubblicato il suo quarto libro Preghiera per Černobyl’ nella traduzione di Sergio Rapetti. Nell’introduzione a firma dell’autrice si legge:
«Dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo Černobyl’, pareva ovvio che la società civile scegliesse un’altra via di sviluppo. Lontana dall’atomica. L’era atomica doveva essere chiusa. Andavano cercate altre vie. E invece continuiamo a vivere con la paura di Černobyl’ […]. Pensavo di aver scritto del passato. Invece era il futuro».
Questa postilla è stata inserita nel 2011 e il futuro di cui si parla è quello della centrale nucleare di Fukushima in Giappone e le analogie con Černobyl’ sono lampanti.
Qualche giorno dopo lo tsunami lo scrittore statunitense William T. Vollmann decide di partire per il Giappone e racconta il suo viaggio nel libro-reportage Zona proibita. Ma Vollmann si rende conto che non c’è nulla di particolarmente interessante da narrare – salvo le macerie. Come si fa a raccontare le radiazioni nucleari?
Svetlana Aleksievic decide di raccontarcele con la descrizione di un corpo che non è più un corpo, ma piaga, con la disperazione delle madri per le deformazioni dei figli. Con gli zampilli di sangue che fuoriescono dai corpi dei pompieri esposti alle radiazioni. Ne L’età dell’estremismo Marco Belpoliti scrive che «Černobyl’ è uno dei simboli negativi nel corso degli anni Novanta. Per l’impatto che ha avuto sugli abitanti dell’Europa continentale, si può facilmente paragonare al catastrofico terremoto che rase al suolo Lisbona il 1 novembre 1755. […] ma del disastro di Černobyl’ è responsabile l’uomo».
E infatti in Preghiera per Černobyl’ le testimonianze si arrovellano sulla questione di come sarà possibile amarsi dopo il disastro, di come sarà ancora possibile fidarsi l’uno dell’altro. Il post-catastrofe è quasi una nuova epoca storica, le analogie fra l’esplosione della centrale e la guerra sono in quasi tutte le testimonianze. Ma c’è qualcosa di più: dopo Černobyl’ non ci sono più libri utili perché è un’esperienza inedita e l’uomo non sa come porsi, è un’esperienza non commisurabile al nostro tempo umano, non sappiamo trarre da tutto questo orrore un senso.
L’opera della Aleksievic vuole essere proprio questo, vuole colmare delle lacune, vuole essere un’opera per quei tempi in cui non ci sono libri ai quali guardare. Un’opera nata dalla Storia e per la Storia.
Nel riportare una testimonianza di un docente dell’Università di Gomel’, Aleksievic annota:
«Ho mandato il racconto a una rivista. Mi hanno risposto che la mia non era un’opera letteraria ma l’esposizione di un incubo notturno».
Questa frase potrebbe facilmente adattarsi all’intero corpus dell’autrice: aldilà della voce dei singoli intervistati vediamo infiltrarsi nelle esitazioni, nel ritmo sincopato, frammentato dai continui puntini di sospensione, l’atmosfera rarefatta dell’incubo. La narrazione procede a stenti, perché racconta qualcosa di difficile, quasi a singhiozzi. È qui che il giornalismo diventa letteratura, nei titoli poetici e metaforici dei monologhi, nella costruzione stilistica dell’inchiesta che procede per impalcature semantiche che si rincorrono: la morte, la guerra, la crudeltà dell’uomo. In sottofondo sentiamo l’eco dei grandi della letteratura russa, soprattutto Dostoevskij. Lo stesso obiettivo, reso esplicito, è, in fondo, più letterario che giornalistico:
«L’oggetto della mia ricerca è sempre lo stesso: la storia dei sentimenti e non della guerra in quanto tale. Cosa pensavano queste persone? Che cosa volevano? Quali erano le loro gioie? E le loro paure? E che cosa ricordano?» (I ragazzi di Zinco, pag. 15).
Sin dal suo primo libro del 1985, La guerra non ha il volto di donna (non ancora tradotto in italiano) il grande tema di Svetlana Aleksievic è la guerra (e la morte). Nel testo d’esordio la guerra è vista dalla prospettiva delle donne sovietiche sul fronte e non a caso:
«Non posso impedirmi di pensare che la guerra sia frutto della natura maschile, la quale resta, per me donna, in gran parte incomprensibile»
Questa è una citazione, una delle pochissime in cui l’autrice parla in prima persona, tratta da I ragazzi di Zinco (1991, trad. ita 2002) che raccoglie le testimonianze di chi ha vissuto la guerra in Afghanistan. Il libro creò molto scalpore perché minava la propaganda russa sulla vicenda e l’autrice ci riesce senza esprimere mai giudizi espliciti, senza mai formulare condanne in prima persona: il senso è dato solamente dalla somma delle testimonianze e dall’insistenza maniacale su alcuni pochi temi: la morte, il corpo, il sogno, il nesso ricordare-dimenticare. Aleksievic non risponde mai alle domande che pone, lascia sempre che il lettore tragga autonomamente le conseguenze e unisca i puntini, ma il senso della sua opera alla fine è sempre inequivocabile. Tutto questo con grandissima onestà intellettuale: la giornalista non lesina nel riportare le voci discordi, anche di forte accusa nei suoi confronti, quelle che la discreditano. I punti di vista sono riportati tutti, l’abilità della scrittrice sta nel suggerire la sua prospettiva attraverso il montaggio del materiale. E nel portare l’orrore della Storia nel quotidiano – come in questo racconto pubblicato il 26 marzo 2010 su Internazionale.
Oppure come nel – bellissimo – racconto che chiude Ragazzi di zinco: dopo una carrellata di testimonianze reali Aleksievic prende la penna e procede con la fantasia, mostrandoci come possono collaborare giornalismo e letteratura. Il racconto è inventato ma potrebbe essere qualcosa che è successo davvero: l’atmosfera è reale, le parole della madre che racconta non sono affatto dissimili dai monologhi delle madri in carne ed ossa. I sentimenti del figlio soldato sono gli stessi di quelli dei soldati che la guerra l’hanno combattuta davvero e non soltanto sulla carta. Ma soprattutto e al contrario: la vicenda è talmente eccezionale da sembrare irreale, addirittura grottesca. Aleksievic alla fine del libro ci mette davanti al dramma della fine della guerra, di come affrontare quel che resta. Al dramma di una madre che non riconosce più suo figlio tornato dall’Afghanistan:
«“Ha ammazzato un uomo con la mannaietta da cucina… e la mattina dopo l’ha rimessa al suo posto nell’armadietto delle stoviglie… come un cucchiaio o una forchetta qualsiasi…
Li sente questi latrati? Perché nessuno li sente? Solo io… invidio quella madre il cui figlio è tornato con le gambe amputate… anche se lui odia tutto e tutti… anche se le si rivolta contro, come una belva ferita… anche se lei dovrebbe comprargli delle prostitute per placarlo… anche se lui vorrebbe ucciderla perché l’ha messo al mondo… anche se…”
Quando tacciono le armi, la guerra ricomincia da capo. Bisogna ripensarla, riviverla. E fa ancora più paura…»