Ho pensato alla nostra Oriana Fallaci, leggendo “Ragazzi di zinco” di Svetlana Aleksjevich, la scrittrice bielorussa a cui è appena stato conferito il premio Nobel per la Letteratura 2015. Con Oriana Fallaci mi è parso che Svetlana Aleksjevich condividesse il genere di scrittura, di giornalismo testimonianza, e il coraggio di raccontare l’altra faccia degli eventi, di tirare giù un velo, di sfatare dei miti illusori.
Come i precedenti “La guerra non ha un volto di donna” (del 1985, ancora inedito in Italia, verrà pubblicato da Bompiani) e “Preghiera per Chernobyl” (pubblicato nel 2004 da e/o), anche “Ragazzi di zinco” è un libro di voci. Prendete in mano il libro e guardate la copertina, dice tutto. Con le parole di uno dei giovani che raccontano la loro storia, ‘se guardi a lungo dentro l’Abisso, l’Abisso guarda dentro di te’. Lo sfondo è nero, il colore del lutto. Un ragazzo, di cui si vede solo la parte superiore del corpo, si appoggia su due stampelle. Quanti giovani sono tornati senza gambe dall’Afghanistan, da quella guerra spacciata per ‘dovere internazionalista’ e diventata poi ‘guerra sporca’, durata dieci anni, dal 1979 al 1989.
Quanti giovani sono tornati senza braccia e senza gambe, rifiutati anche dalle famiglie, ricoverati e abbandonati in qualche istituto. Forse per loro sarebbe stato meglio tornare nelle bare di zinco come i tanti altri (il numero si aggira sui 26.000) che erano morti laggiù- e che cosa c’era, poi, dentro quelle bare di zinco? Quei resti, quei frammenti di corpi dilaniati dalle granate, erano proprio quelli del ragazzo identificato con nome e cognome sulla bara? Oltre tutto, i soldati non avevano neppure le piastrine di riconoscimento. Erano partiti- quasi tutti- baldanzosi, credendo che sarebbero diventati degli eroi, con l’incoscienza giovanile che fa della guerra un’avventura straordinaria, un rito di passaggio per diventare un uomo. E poi c’entrava il senso del dovere, quando la Patria chiama, si ubbidisce. Quando un superiore dà un ordine, si ubbidisce, non si sta a discutere. Ti dicono di uccidere e tu uccidi. L’esercito è così.
Erano tutti giovanissimi- lo si sente nelle voci che raccontano, che parlano di scuola, di primi amori, della mamma. Quando, alla fine del libro, si leggono gli epitaffi, la serie delle date di nascita e morte (il calcolo è presto fatto, diciotto, diciannove, vent’anni) è sconvolgente. Questa è la maggiore differenza con la Grande Guerra Patriottica che aveva coinvolto tutti, in cui tutti avevano sofferto, tutti avevano avuto dei lutti. La guerra in Afghanistan era avvolta da un alone di segretezza e di mistero. Circolavano voci che laggiù i soldati se la spassassero e si arricchissero, che tornassero con mangianastri e cappotti foderati di montone. Non trapelava altro, in guardia dal disfattismo!
Ho pensato anche a “La strada del Davai” di Nuto Revelli, leggendo “Ragazzi di zinco”. Altro paese, altra guerra, un altro tempo, eppure c’è la somiglianza della scoperta dell’orrore della guerra nelle voci degli italiani che parlano con Revelli e in quelle dei russi che raccontano a Svetlana Aleksjevich. C’è l’atroce realtà di quello che significa uccidere, quella ancora più spaventosa del rendersi conto del sollievo che si prova, se è un altro che muore, la sensazione di essere vittime di un enorme inganno, di non poter mai più tornare ad essere quelli di prima.
Ragazzi, giovani donne inviate per lo più come infermiere (mai avrebbero pensato di dover prestare aiuto in situazioni così disperate) e madri prendono la parola in questo libro corale. E sono le madri quelle che più straziano il cuore, come quelle di Palza de Mayo, mamme che ricordano il figlio bambino che chiamavano ‘il mio piccolo sole’, mamme che vanno ogni giorno sulla tomba del figlio e ogni loro parola è una carezza, mamme che non si rassegnano.
E’ un libro epico e stranamente poetico, “Ragazzi di zinco”. E’ una poesia del dolore che nasce dal contrasto tra giovinezza e vite stroncate, tra l’orrore della morte e il fulgore dei colori di splendidi paesaggi. E’ la poesia della fine dell’innocenza. Di una generazione perduta. E’ una testimonianza impossibile da ignorare.