Il ragazzo è appena tornato dal fronte afgano. La mamma lo guarda felice visto che ha temuto il peggio per alcuni anni. Eppure il ragazzo non le parla tantissimo e non racconta mai ciò che ha visto, provato, sentito durante gli anni lontano da casa. Una sera, tornando a casa, la donna trova in cucina altri uomini con suo figlio: tutti reduci dalla guerra afgana. Sembra che un filo invisibile leghi sempre e comunque suo figlio a quella terra, come se mai fosse realmente tornato in Russia. Ormai la violenza fa parte della sua vita, ne è diventata elemento fondante… La ragazza fa l’infermiera. Ha ritenuto che servire la propria patria fosse il suo dovere. Si è dunque arruolata ed è stata mandata a Kabul: all’inferno. Molte le molestie subite dai commilitoni, molte le volte che ha dovuto difendersi dai loro tentativi di usarle violenza. Ora è tornata a casa, in Russia. Non lo rifarebbe mai. Per nessuna ragione al mondo tornerebbe al fronte a guardare con i suoi occhi quell’orrore… Moltissime le donne che portano la loro testimonianza. Quelle che hanno visto tornare i resti dei figli in una cassa di zinco che non hanno mai aperto. Il dolore è malcelato, il disappunto è tra le parole di ogni donna costretta a vivere con il lutto nel proprio cuore…
Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura 2015, ha scritto questo lungo e doloroso reportage come ultimo atto della sua trilogia contro la guerra. In Russia questo suo lavoro è stato accolto da critiche durissime e severe. Il tentativo della scrittrice di dar voce a tutta l’umanità sofferente è stato visto come un atto per screditare la Russia e la guerra in Afghanistan marchiandola come un atto scellerato che ha portato conseguenze devastanti per la maggior parte della popolazione. Il punto ricorrente in questa narrazione corale e immediata della guerra afgana scaturisce proprio dalla dinamica tra istituzioni e soldato, tra il potere e la sua pedina umana, tra menzogna e verità: è unanime nelle voci degli “afgancy” lo sconforto per un sacrificio compiuto in nome di qualcosa che non esiste, il dovere internazionalista e la fratellanza col popolo afgano, per una guerra affrontata senza la minima preparazione tecnica e in condizioni atroci. La disillusione di molti ragazzi partiti sulla scorta di un ingenuo romanticismo si reitera all'infinito e pone ognuno di essi di fronte al lacerante conflitto tra il continuare a "credere" e la scoperta della verità che ha reso la formula sovietica un dogma ormai scarnificato e immobile. L'unica cosa che in questo scenario tremendo rimane vitale, fertile, è la narrazione, che mostra impietosa l'immagine di un dolore imposto dallo Stato, dell'annichilimento dell'essere umano nella tragedia collettiva della guerra.