Joan Didion e le storie che ci raccontiamo
Autore: Sebastiano Iannizzotto
Testata: Dude Magazine
Data: 23 settembre 2015
Più o meno un mese fa, ho condiviso sul mio diario di Facebook una foto in bianco e nero che ritrae una giovane donna appoggiata a una Chevy Corvette Stingray. La giovane donna ha un’espressione seria (potrebbe sembrare accigliata o malinconica), indossa un abito lungo sotto cui si intuisce un corpo esile e tiene una sigaretta tra l’indice e il medio della mano destra. La giovane donna in questione si chiama Joan Didion. La foto è stata scattata a Hollywood, nel ’68, da Julian Wasser per Time.
C’è un magnetismo particolare in quegli occhi che guardano dritto nell’obiettivo. È una forza difficilmente comprensibile: sento solo la necessità di tornare a guardare quella foto (e le altre scattate da Wasser) perché è come se non riuscissi a cogliere qualcosa, è come se una parte di quella donna di 34 anni non mi fosse chiara, come se i suoi contorni, a un certo punto, iniziassero a sfumare. C’è un senso di intimità – la posa tutto sommato disinvolta e noncurante, la sigaretta tenuta tra le dita e quasi dimenticata – ma non è totale: Didion si mostra, ma non del tutto. E la stessa cosa accade con la sua scrittura (soprattutto la non-fiction, anche se lo stesso discorso si può fare per i romanzi, ma in quel caso non si parla di lei, ma delle sue protagoniste).
Condividendo quella foto sul mio diario non ho fatto altro che lasciarmi sedurre dalla coolness di Didion e, allo stesso tempo, alimentarla.
Il culto dell’autrice californiana non è nato ieri. In America non si erano certo dimenticati di Slouching towards Bethlehem (uscito nel 1968, poco tempo prima degli scatti di Wasser) né di The White Album (1978), raccolte di «pezzi, o saggi, se preferite» usciti su vari magazine, da Vogue a Esquire, da Life a The American Scholar. Didion è considerata uno dei pilastri del New Journalism e il suo Self-respect: Its source, its power è uno dei caposaldi del giornalismo americano ed è giusto ricordare che è stato scritto da una ventisettenne in una situazione d’emergenza: Vogue stava per andare in stampa e bisognava coprire un buco lasciato da un autore che non aveva consegnato il suo pezzo.
Dopo cinque romanzi, svariati saggi, reportage e sceneggiature (scritte insieme al marito John Gregory Dunne), la vera consacrazione è arrivata una decina di anni fa. Dal 2005 Joan Didion ha messo in fila una sequenza impressionante di riconoscimenti: National Book Award for Nonfiction per The year of magical thinking; Medal For Distinguished Contribution to American Letters nel 2007; Evelyn F. Burkey Award, sempre nel 2007; due lauree honoris causa in Lettere da Harvard e da Yale; la National Medal of Arts and Humanities direttamente dalle mani di Barack Obama.
Il nipote Griffin Dunne e Susanne Rostock hanno raccolto, in un solo giorno, 221.135 dollari su Kickstarter per We Tell Ourselves Stories In Order to Live, «the first and only documentary about Joan Didion. Made with Joan, using Joan’s words». L’ obiettivo era di 80.000 dollari.
Il 25 agosto è uscito The last love song di Tracy Daugherty, la prima biografia di Didion: livelli di hype altissimi.
In Italia, fino a qualche anno fa, Joan Didion era praticamente sconosciuta. A fine anni ’70 Bompiani pubblicò Prendila come viene e Diglielo da parte mia. Trentuno anni fa uscì Democracy per Frassinelli. Poi, l’oblio. Solo nel 2013 E/O ha recuperato Diglielo da parte mia e, l’anno dopo, Democracy (il primo tradotto da Adriana Dall’Orto e il secondo da Rossella Bernascone)
La non-fiction, ovvero quella cosa che sta a Didion come lo scorpione sta a René Higuita, è stata ignorata fino al 2008, quando sono usciti L’anno del pensiero magico (il Saggiatore, traduzione di Vincenzo Mantovani) e, finalmente, Verso Betlemme (il Saggiatore, traduzione di Delfina Vezzoli).
Questo ritardo non fa che confermare il problema dell’editoria italiana con tutte quelle forme di scrittura che non sono fiction allo stato puro. Forse per questa scarsa fiducia nella non-fiction, sulla copertina de L’anno del pensiero magico c’è scritto “romanzo”. In effetti, però, si tratterebbe di un memoir in cui Didion racconta della malattia della figlia Quintana Roo e dell’improvvisa morte del marito John Gregory Dunne. I personaggi che compaiono nel libro sono persone e si chiamano Quintana e John e la narratrice è proprio Joan Didion. Senza addentrarci nell’annosa questione dei confini tra i generi letterari e della definizione di romanzo, il malinteso di quella parola scritta in copertina può diventare la porta attraverso cui entrare dove bisogna essere davvero, al di là del glamour, della coolness, delle campagne pubblicitarie per Gap (nel 1989, con la figlia Quintana) e Cèline (quest’anno, con un paio di occhialoni scuri e l’espressione scocciata): nella scrittura di Joan Didion.
La prosa della scrittrice californiana non può prescindere dalla persona che dice “io” sulla pagina. Questo vale sia per la fiction che per la non-fiction, ma con risultati diversi. In romanzi come Diglielo da parte mia e Democracy l’uso di un narratore che racconta le vicende di Charlotte Douglas e Inez Victor non è una novità: a me viene sempre in mente Nick Carraway che racconta Jay Gatsby. Conosciamo Charlotte e Inez attraverso gli occhi di Grace e di una narratrice senza nome: questo stratagemma rende ancora più frammentata la narrazione, mettendo insieme un puzzle di ricordi e di racconti sentiti da terzi, con tutta l’incertezza del caso. Teniamo da parte la frammentarietà, perché ci servirà più avanti. Basti sapere, adesso, che qualsiasi cosa Didion racconti, che siano gli anni ’60 o la storia di una donna che cerca la figlia fuggitiva in una repubblica centramericana, non lo fa mai in modo lineare. Tornando alla faccenda dell’“io” sulla pagina, nella non-fiction gli effetti sono diversi. Prendiamo The White Album, il pezzo che dà il titolo all’intera raccolta (uscita finalmente in Italia a fine agosto grazie a il Saggiatore, traduzione di Delfina Vezzoli). A leggerlo, mi è venuta subito in mente la trasposizione cinematografica di Inherent Vice di Pynchon fatta da Paul Thomas Anderson: lo stesso mix di paranoia, incertezza e insensatezza diffuso più o meno ovunque. Al liceo avevo una prof fissata con il ’68. Ce lo fece studiare in lungo e in largo per un bel po’. A distanza di quasi undici anni, però, finalmente ho capito l’essenza di quel periodo grazie a Joan Didion e al suo album bianco e grazie a una frase che sintetizza tutto: «ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968».
Tutto quello che viene raccontato, in questo come negli altri pezzi di The White Album, sta sulla pagina perché è stato vissuto da Didion. Questo non conferisce alla scrittura una maggiore autenticità, ovvero quella presunta qualità intrinseca per cui ci piacciono tanto le “storie vere” e per cui “tratto da una storia vera” sembra un bollino di garanzia da appiccicare sopra un prodotto culturale per legittimarlo, come si applica un bollino blu sulle banane a garanzia della loro qualità. Il fatto che Didion abitasse «in una grande casa in una parte di Hollywood che un tempo era stata esclusiva e adesso veniva descritta da una delle mie conoscenze come un “quartiere di omicidi insensati”» non la rende un testimone più attendibile dell’omicidio di Ramón Novarro a Laurel Canyon o di quello di Sharon Tate a Cielo Drive o di quello dei coniugi LaBianca a Los Feliz. Invece Didion racconta quello che vede, quello che sente, quello che altri le raccontano. E lo fa senza ergersi su un piedistallo per ammaestrare il lettore. Non dice mai «leggi qui, adesso ti spiego cos’è stata l’America negli anni ’60-’70». Lei racconta e basta. Non finisci uno di questi articoli/saggi con una morale in tasca. Non c’è nessun insegnamento. Anche quando racconta personaggi controversi come Linda Kasabian, che le chiede di comprarle un vestito nuovo per andare a testimoniare in tribunale, perché quello che aveva pensato di indossare non era adatto secondo il procuratore Vincent Bugliosi (perché «il lungo era da sera e il bianco era per le spose»), o James Albert Pike, vescovo episcopale della California, uno che raccolse tre milioni di dollari per completare la Grace Episcopal Cathedral di San Francisco e dopo cinque anni lasciò tutto per andare in Giordania con la nuova moglie a fare l’esperienza del deserto come la fece Gesù e noleggiò una Ford Cortina portò con sé solo una cartina e due bottiglie di Coca-Cola, Didion non giudica e non usa l’ironia per tenersi a distanza dai suoi personaggi. Nel caso di Pike, addirittura, cerca di rintracciare nella vita di «questo figlio dell’Ovest che va all’Est ad acchiappare il suo futuro» il sapore di un’epoca, ripercorrendo una traiettoria che conosce bene, da Ovest a Est e poi di nuovo a Ovest, una traiettoria su cui lei stessa si era mossa. Pike, i funzionari del California Department of Transportation, i delegati della Junior Chamber of Commerce degli Stati Uniti, il pastore Theobold, l’aspirante attrice Dallas Beardsley, perfino Doris Lessing: i personaggi che si incontrano in The White Album sono spesso lontanissimi da Didion, per background culturale e modo di vedere la vita. Eppure, pur facendo parte di quella «città invisibile» e parallela a quella abitata da lei e dalla sua cerchia di amici, non c’è mai un sorrisetto ironico nei loro confronti. Non li tratta mai con sufficienza, né con benevolenza: Didion si pone alla giusta distanza, non ne prende le difese né li condanna a priori. Cerca di capirli, li compatisce nel senso latino del termine: soffre con loro quando c’è da soffrire, come nei casi di Charlotte, Inez e Maria, tre donne che non vengono mai descritte con pietà o con toni patetici, bensì con compartecipazione, facendo spazio al lettore affinché, attraverso le parole, possa vederle e toccarle e osservare i particolari, cercando di metterle in una luce sempre diversa, pagina dopo pagina. Che sia finzione o non-fiction, tutti i personaggi di Didion possiedono un dinamismo che raramente si trova in un libro o in un magazine. Per dinamismo intendo una qualità che consiste nel rendere vive le parole, nel conferire ai personaggi le qualità e i difetti delle persone, tutte quelle cose che è difficile trasferire dalla vita alle pagine di un romanzo o di un articolo di giornale senza rischiare di sembrare patetici. Prendiamo per esempio le ultime pagine di Democracy. La tragedia familiare dei Christian si è consumata, Inez ha trovato il coraggio di compiere quella scelta che ha sempre avuto a portata di mano. Adesso dovrebbe essere felice. E forse lo è, forse no. Finalmente vive con l’uomo di cui è innamorata da anni. Quando la tragedia si manifesta di nuovo in una piscina di un lussuoso hotel di Kuala Lumpur, quello che impressiona è la sua reazione e il modo in cui la scrittura di Joan Didion aderisce a quella scena e alle successive: è elegante e concisa, controllata, essenziale. E il dramma di Inez risuona ancora più forte per contrasto, emana la luce delle esplosioni nucleari negli atolli del Pacifico, fredda e insostenibile, di una bellezza rara. La stessa scrittura non compiaciuta si trova anche nella non-fiction. Giorni sereni a Malibu, il pezzo di chiusura di The White Album, restituisce le atmosfere di un parte di California che tutto il mondo crede di conoscere (d’altronde «l’apparente facilità della vita californiana è un’illusione, e quelli che la credono vera vivono qui solo temporaneamente»). Per farlo, cuce insieme delle piccole storie che si appoggiano a dei personaggi: prima quella del bagnino Dick Haddock e dei suoi colleghi della centrale di Zuma (quanto di più lontano da Baywatch, tassello fondamentale, per chi come me è cresciuto negli anni ‘90, nella costruzione di un immaginario tipicamente americano e, nello specifico, tipicamente West Coast) poi quella di Amado Vázquez, coltivatore di orchidee.
Ecco, quando racconta di quest’uomo e della sua passione per un fiore così bello e fragile e misterioso, Didion mostra di nuovo quella sua maestria nello stare con le persone per farle diventare personaggi, aggirando con eleganza e controllo ogni rischio di patetismo:
«Ho avuto la sensazione quel giorno di non aver mai parlato prima con una persona tanto diretta e priva d’imbarazzo riguardo alle cose che adora. Mi aveva detto in precedenza di non aver mai chiesto la cittadinanza statunitense per via di un’immagine che sapeva falsa ma non riusciva a togliersi dalla testa: l’immagine era quella di trovarsi davanti a un giudice e calpestare la bandiera messicana. “E io amo il mio paese” aveva detto. Amado Vázquez amava il suo paese; Amado Vázquez amava la sua famiglia; Amado Vázquez amava le orchidee. “Voleva sapere cosa provo per queste piante” mi ha detto mentre me ne andavo. “Glielo dico. Morirò tra le orchidee.”».
Magari un paragrafo come questo non sarà piaciuto a Martin Amis (ci è andato giù abbastanza pesante in una recensione di The White Album apparsa sul London Review of Books nel 1980). Lo scrittore inglese l’ha accusata di manierismo, puntando l’indice contro il suo stile fatto di ripetizioni, frasi brevi, frequenti a capo e corsivi. Nel saggio Joan Didion: only disconnect (1980) Barbara Grizzuti Harrison la definì una Cher nevrastenica con uno stile «full of tricks» e un unico tema: se stessa. Sarebbe una negazione della realtà dire che Joan Didion non è presente in quello che scrive (nella sua produzione non-fiction, chiaro, ma anche nella fiction). Intanto c’è perché è lo sguardo che osserva: la realtà raccontata in Verso Betlemme e in The White Album passa attraverso il filtro della sua sensibilità e arriva fino a noi.
D’altronde sarebbe un’illusione aspirare a una scrittura oggettiva. La scelta di cosa raccontare e la selezione di immagini e sequenze e parole implicano già uno sguardo soggettivo che setaccia il reale. In secondo luogo, Didion è presente in quello che scrive perché si “fictionalizza”. Da persona diventa anche lei personaggio. Certo, se trascrive il suo referto psichiatrico o se accenna ai suoi problemi coniugali o se elenca le cose davvero essenziali da portare in caso di partenza improvvisa per un reportage, non lo fa per mettersi in mostra. Il movente non è il narcisismo. Se Didion scrive che il bourbon non poteva mancare nella sua valigia da reporter, non lo fa per compiacersi. La sua scrittura si muove sul confine tra confessione e artificio retorico. Queste fessure attraverso cui guardare il privato sono sempre funzionali al contesto in cui sono inserite: la mancanza di senso del decennio ’60-’70, la paranoia diffusa, la sensazione di distacco da un momento storico schizofrenico (qualcosa che, non troppi anni dopo, Less Than Zero di Bret Easton Ellis porterà al parossismo). Si tratta sempre di un’illusione di intimità. Joan Didion sceglie da quale fessura farci guardare. In alcuni casi è esplicita e lo dichiara apertamente:
«In assenza di un disastro naturale siamo di nuovo abbandonati a noi stessi e ai nostri problemi. Siamo qui su quest’isola in mezzo al Pacifico invece di sbrigare le pratiche per il divorzio. Non ve lo dico come una rivelazione oziosa, ma perché voglio che, mentre mi leggete, sappiate esattamente chi sono e dove sono e che cosa ho in mente. Voglio che capiate esattamente chi vi trovate di fronte: vi trovate di fronte a una donna che ormai da qualche tempo si sente radicalmente distaccata dalla maggior parte delle idee che sembrano interessare gli altri. Vi trovate di fronte a una donna che lungo il percorso ha smarrito qualunque barlume di fiducia abbia mai avuto nel contratto sociale, nel principio di miglioramento, in tutto il grandioso sistema dell’impresa umana».
E ancora:
«Io non sono la società in un microcosmo. Sono una donna di trentaquattro anni con lunghi capelli dritti e un vecchio bikini e i nervi a pezzi, seduta su un’isola in mezzo al Pacifico ad aspettare un’onda anomala che non arriverà».
Didion rivendica la sua soggettività, non le importa essere oggettiva nel raccontare la visita alla diga di Hoover. Cos’altro è questo se non New Journalism?
Tutto questo non sarebbe possibile senza una profonda consapevolezza di sé e della propria scrittura e del senso di raccontare storie.
«Noi ci raccontiamo delle storie per vivere. […] Interpretiamo ciò che vediamo, selezioniamo la più praticabile delle scelte multiple. E, soprattutto se siamo scrittori, viviamo grazie all’imposizione di una linea narrativa sulle immagini più disparate, alle “idee” con cui abbiamo imparato a congelare la mutevole fantasmagoria che costituisce la nostra esperienza effettiva. O quantomeno lo facciamo per un po’. Sto parlando di un periodo in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata, una condizione comune, ma che trovavo preoccupante. Suppongo che questo periodo sia iniziato verso il 1966 per continuare fino al 1971».
«Ci raccontiamo delle storie per vivere» sembra il rovescio di «vivere per raccontarla» (titolo dell’autobiografia di Gabriel García Márquez, Vivir para contarla, 2002). Quello che succede nella vita finisce irrimediabilmente nel racconto. Ma quello che rende possibile la vita sono proprio le storie che ci raccontiamo. Il racconto diventa un principio ordinatore della realtà. O, forse, un tentativo di mettere ordine nel reale, un tentativo di cercare «una linea narrativa» che tenga insieme degli eventi che, in realtà, una logica non ce l’hanno.
’incipit di The White Album è potente, suona come una rivelazione. Ci raccontiamo delle storie per vivere, wow, quanto è vero. Subito dopo, però, questa frase è portata alla prova dei fatti, è trascinata dal mondo delle idee a quello della vita. Ed è così che entra in crisi. Vero, ci raccontiamo delle storie per vivere, ma. Ma può succedere che sforzarsi di creare nessi causa-effetto, a volte, sia impossibile e vano. Ma può succedere che le sequenze che ci passano davanti agli occhi siano dei fotogrammi del tutto impazziti: un referto psichiatrico, degli omicidi insensati, un quartiere abitato da persone strambe, Linda Kasabian e il suo vestito nuovo, Jim Morrison che non indossa le mutande sotto i pantaloni di vinile nero, Huey P. Newton che non riesce a dire “io” ma solo “noi” («continuavo a desiderare che parlasse di sé, a sperare di aprire una breccia nel muro della retorica; ma lui sembrava essere uno di quegli autodidatti per i quali tutte le cose particolari e personali si presentano come campi minati da evitare anche a spese della coerenza, e per i quali la salvezza risiede nella generalizzazione»), il Black Panther Party, una lista di oggetti da mettere in valigia in caso di partenza improvvisa per un reportage da cui manca però una cosa importante, un haiku di Ezra Pound, le proteste nei college. Sono tutti frammenti privi di un collegamento, privi di un senso, almeno in apparenza. E invece il collegamento c’è, è lo sguardo di Joan Didion, la sua sensibilità:
«negli anni in cui mi fu necessario rivedere i circuiti della mia mente, scoprii che non mi interessava più sapere se la donna sul cornicione fuori dalla finestra del sedicesimo piano saltava o non saltava, o perché. Mi interessava solo il quadro di lei nella mia mente: i suoi capelli incandescenti sotto le luci dei riflettori, le sue dita dei piedi arricciate sul cornicione di pietra. In questa luce, tutta la storia era sentimentale. In questa luce, tutti i collegamenti erano egualmente significativi, ed egualmente privi di senso».
Da brava sceneggiatrice, Didion sa che le storie devono seguire una linea che conduca lo spettatore verso una conclusione. Sa che ogni scena deve portare alla successiva, sa che deve esserci un legame che spinge ogni volta la narrazione più avanti. Ma le cose, a volte, si complicano: «avrei dovuto sapere la trama, invece sapevo solo quel che vedevo: una serie di inquadrature in sequenza variabile, immagini senza alcun “significato” al di là della loro disposizione temporanea, non un film ma un’esperienza da sala montaggio. In quella che doveva essere la metà della mia vita, volevo ancora credere nel racconto e nell’intelligibilità del racconto, ma sapere che si poteva cambiare il senso a ogni taglio equivaleva a percepire l’esperienza come molto più elettrica che etica». Molti pezzi di The White Album sono costruiti così, sono un’esperienza in una sala di montaggio, inquadrature giustapposte senza la volontà di restituire una visione morale, proprio in un momento storico in cui le categorie etiche vacillano ed entrano definitivamente in crisi.
L’immagine della sala di montaggio torna in L’anno del pensiero magico. Dopo aver raccontato sinteticamente della morte improvvisa del marito, Didion aggiunge:
«questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì […] Ho fatto la scrittrice per tutta la vita. Come scrittrice, anche da ragazzina, molto tempo prima che quello che scrivevo cominciasse a essere pubblicato, a poco a poco mi formai l’idea che il significato stesso fosse insito nel ritmo delle parole, delle frasi e dei paragrafi, una tecnica per nascondere quello che pensavo o che credevo, qualunque cosa fosse, sotto una vernice sempre più impenetrabile. Io sono, o sono diventata, il mio modo di scrivere, ma questo è un caso in cui al posto delle parole e dei loro ritmi avrei voluto avere una sala di montaggio, attrezzata con un Avid, un sistema di editing digitale sul quale potrei toccare un tasto e distruggere la sequenza temporale, mostrarvi simultaneamente tutte le inquadrature della memoria che ora mi vengono in mente, lasciarvi scegliere le riprese, le espressioni leggermente diverse, le varie letture delle stesse battute».
Sono passati venticinque anni da The White Album. È cambiata la spinta alla scrittura. In questo caso, è il bisogno di fare ordine dopo un evento tragico, la necessità di ritrovarsi con l’unico mezzo che le è concesso: la scrittura. Non c’è una rinnovata fiducia nel racconto lineare. Torna il bisogno della sala di montaggio, torna la necessità di confrontarsi con singole sequenze di cui è sfuggito il significato. C’è una storia essenzialmente sentimentale (la perdita di John Gregory, la gravità della malattia di Quintana) e per superare la tragicità del momento (di quella singola scena in cui il marito è colpito dall’infarto e cade dalla sedia) è necessario chiudersi al montaggio a riguardare ogni sequenza, ogni spezzone, ogni ricordo, anche quelli apparentemente inutili o futili, perché tutti i collegamenti sono «egualmente significativi, ed egualmente privi di senso». In un colpo solo, poi, Didion risponde anche all’accusa contro il suo stile pieno di trick: come scrittrice ha da sempre avuto fiducia nel ritmo delle parole, nella loro disposizione all’interno delle frasi e dei paragrafi, perché il senso sta anche lì (com’è testimoniato da In tournée, all’interno di The White Album: la frenesia degli spostamenti continui dovuti al tour promozionale di un libro si riflette in una prosa sincopata e franta). Questa devozione nei confronti dello stile vacilla solo a settant’anni, quando si apre una frattura nella sua vita e la perdita del compagno di una vita la costringe a fare i conti con la memoria e, di nuovo, con l’assurdità dell’esistenza.
Nell’agosto del 1977 Joan Didion rilasciò una lunga intervista a The Paris Review. La prima domanda che Lind Kuehl le fece era sul perché considerasse la scrittura un atto ostile. «È ostile nella misura in cui stai provando a fare in modo che un altro veda le cose come le vedi tu, stai provando a imporre la tua idea, la tua immagine. […] Capita spesso di voler raccontare a qualcuno un sogno, un incubo. Bene, nessuno vuole sapere del sogno di qualcun altro, bello o brutto che sia. […] Lo scrittore sta sempre provando a indurre con l’inganno il lettore ad ascoltare il sogno» (traduzione mia). Negli ultimi due libri pubblicati da Didion, L’anno del pensiero magico e Blue nights (tradotto da Delfina Vezzoli e pubblicato nel 2012 da il Saggiatore), è ancora più evidente che la posta in gioco siano i suoi incubi personali: dopo la morte del marito, quella della figlia. In vicende così individuali riesce a far risuonare qualcosa di collettivo e condiviso. Sui social network ciascuno di noi si racconta in un modo che tende a portare in primo piano la coolness e il proprio ombelico. Siamo diventati oggetto di una narrazione autobiografica finta e bulimica, incapace di compiere un salto dal particolare all’universale.
Joan Didion è un modello che si pone in antitesi rispetto a questa tendenza. La sua soggettività non è mai invadente, non allaga il racconto, ma diventa la cassa di risonanza di sentimenti in cui chiunque può riconoscersi. Lo fa attraverso una scrittura in cui ogni parola è necessaria.
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