Intervista di Patrizia Rinaldi di Veronica Fantini (23 Luglio 2015)
Il ritratto di due donne tra memoria storica e presente. Qualche domanda all’autrice per addentrarsi in questo imperdibile romanzo.
In una nota all’interno della premessa lei afferma che la narrazione “procede a capitoli alternati tra storia e claustrofobia”. Come ha elaborato stilisticamente la resa di quest’ultima componente?
Nel romanzo sono presenti due storie: quella di una madre da giovane, Maria Antonia, e quella della figlia, Ena, alla fine dei suoi giorni. La prima storia è detta in terza, con una voce da saga anche se anomala. Ena è costretta a letto per la rottura del femore, propone un monologo delirante e claustrofobico di ricordi e cronologie scombinate. Ho cercato di rendere il peso della suggestione con un linguaggio onirico, che si spezza di continuo in sentimenti contrastanti. Le parole di Ena privilegiano la confusione, il disincanto, lo scandalo di una vitalità che combatte con il suo stato di inferma.
“Le parole sono puttane bellissime”, afferma Ena, una delle due protagoniste. Dal suo punto di vista di scrittrice come interpreta questa affermazione?
La seduzione delle parole mi è sempre parsa irresistibile; da lettrice preferisco il senso di abbandono all’acume critico. Non faccio distinzioni di genere, di semplicità, di complessità, di contrappunti narrativi. Mi pare che ogni storia inciti a una scelta d’amore che non ne preclude un’altra, un’altra ancora. Quando le parole riescono a sedurre, appunto.
Ena, nei suoi pensieri, e spesso anche nei suoi discorsi, utilizza alcuni termini dialettali, ma nel momento in cui la badante straniera le chiede il significato di una parola, si rifiuta di spiegarle il significato, poiché si tratta di “una lingua morta. Dicono pure che intralci la comprensione tra gli uomini”. È corretto interpretare la sua reticenza come un tentativo di protezione della sua intimità, se teniamo conto che il dialetto è una forma d’espressione degli affetti e propria della sfera familiare?
Sì, Ena protegge il suo lessico familiare, quindi la voce del latte, del dire sentimentale più privato. Con gli intervalli e la misura cercati, a me piace ricordare la bellezza del suono dei dialetti, anche quando sono poco comprensibili.
“Posso consapevolmente affermare dall’alto del rincoglionimento che le storie degli altri mi hanno protetta dalla mia e pure da quella con la S maiuscola…”. Si può estendere questo concetto anche alla pratica della lettura, lei cosa ne pensa?
La lettura e quindi le curiosità, il coinvolgimento, la libertà di diventare altre persone, di avere età diverse, di rispecchiarsi in paesaggi sconosciuti, di vivere epoche passate o future hanno protetto anche me.
Nei dati storici presenti in Ma già prima di giugno vi sono elementi biografici o confluiti da ricordi o racconti familiari?
Mia madre è stata profuga di guerra, questo è il dato privato più significativo in Ma già prima di giugno. La sua storia è per me un monito continuo, un avvertimento del passato nel presente.
Dalla trilogia di Blanca Occhiuzzi a Ma già prima di giugno: qual è stata l’occasione che ha dato l’impulso ad abbandonare (temporaneamente?) il genere noir?
Ho scritto noir, romanzi per ragazzi, testi per graphic novel, per il teatro. Mi piace imparare linguaggi e contesti narrativi diversi, mettermi alla prova. Mi piace combattere la tentazione di somigliarmi più del lecito.