Gli anni 70 senza fare abiura
Autore: Vittorio Giacopini
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 19 luglio 2015
La stagione del terrorismo, la lotta armata. Anche se qualche tempo fa era piuttosto di moda il debutto editoriale dell’ex Br di turno, del Nar di turno, è un terreno che la letteratura italiana tende a evitare. Le sabbie mobili degli “anni di piombo” è meglio lasciarle alle serie tv, o ai giornalisti. Le eccezioni – i bei memoir di Benedetta Tobagi, i romanzi (più furbi) di Fontana, un trascurato ma ottimo libro di Lambiase (Terroristi brava gente, Marlin ) – non sembrano invertire la tendenza. In ogni caso, c’è grande imbarazzo a affrontare direttamente quella fase tanto che anche i pochi buoni romanzi sugli anni Settanta (I giorni della rotonda di Silvia Ballestra, Piove all’insù di Rastello, Come un respiro interrotto di Fabio Stassi) si limitano solo a evocarla, obliquamente. Di rado si cerca di ripensare, raccontando. Quasi mai si esce da un cliché di moralismo e in ogni caso la critica della vittima evocata da Daniele Giglioli tempo fa in un saggio importante in questo caso appare radicalmente bloccata alla radice e più che una rimozione è un interdetto. Non è ovunque così. In Germania il tema è stato affrontato con estrema limpidezza, proprio da subito. Basti pensare a un grande film collettivo come Germania in Autunno o a L’onore perduto di Khatarina Blum (il libro e il film) e, soprattutto, a Donne con paesaggio fluviale, l’ultimo, grande romanzo di Henrich Boll (un autore su cui bisognerebbe tornare, sarebbe ora). A parte le differenze molto evidenti tra il percorso di un’organizzazione come la Raf e le Br (ne parla un libro utilissimo: Rote Armee Fraftion, di Aust Stefan, Il Saggiatore), il nodo politico era chiaro da subito, e imbarazzante: l’esigenza di far cadere un sistema «in cui ex SS vincono le elezioni ed ex nazisti amministrano la giustizia», la lotta contro l’autoritarismo, la repressione, il clima di inquisizione, sospetto, paranoia che già Böll sbeffeggiava nel suo Rapporto sui sentimenti politici della Nazione, e – di contro – la deriva violenta, la scelta del terrorismo, la spirale di nichilismo in cui finisce per avvitarsi la protesta , originariamente libertaria, della Baader Meinohof. Germania pallida madre, si disse allora. La letteratura, l’arte, furono immediatamente chiamate in causa, ma erano pronte (come Sciascia in Italia, rara avis). Il resto è storia. E dentro (e contro) la storia restano sempre ombre e fantasmi e ansie e cicatrici che solo il tempo che passa può fugare. Memoir di autentico spessore letterario e stilistico, La scomparsa di Philip. S. di Ulrike Edschmid torna oggi a quegli anni, anzi, all’attimo prima, alla “premessa”. Siamo in quel passaggio decisivo che va dal ’68 al ’70, diciamo tra l’omicidio dello studente Benno Ohnesorg durante le proteste contro la visita in Germania dello Scià (ne parla L’amico e lo straniero, un romanzo importante di Uwe Timm) e le prime avventure armate della Raf. La Edschimd racconta di quei mesi e quei giorni molto da dentro. A partire da un cadavere steso in strada, in un parcheggio. Ucciso a Colonia in uno scontro a fuoco con la polizia, Philp S. è stato a lungo il compagno della Edschmid. Da quando è entrato in clandestinità i loro destini si sono separati; è una rottura amara, irrimediabile, ma Edschmid di quanto è accaduto prima non si vergogna e non rinnega nulla, giustamente. Nel libro c’è la ricostruzione fedele di un percorso di educazione (sentimentale, artistica, sociale) interessantissimo. Troviamo il rapporto sempre più stretto tra le arti e l’azione, la politica; troviamo l’ostinazione e il coraggio di chi ha cercato un modo diverso di affrontare (o subire) la vita quotidiana, e modificarla, e ci sono un’altra idea di politica, di famiglia, anche di amore: insomma l’utopia di quegli anni, lucida e bella. La Edschmid non accetta gli interdetti meschini del senno del poi e rivendica le ragioni di ieri, non fa abiura. I sogni di ieri sono i rimpianti di oggi, probabilmente («se è potuto nascere il terrorismo nel nostro paese è perché l’utopia veniva soffocata già da troppo tempo» ha osservato Fassbinder, e aveva ragione) . Ma non solo. La scomparsa è anche un libro che parla dell’Italia, e di noi, dentro quegli anni. C’è il viaggio di Philp S. a Milano per prendere contatto con le Br. C’è, soprattutto, la cronaca di un lungo soggiorno romano di questa strana famiglia (Ulrike, suo figlio, Philip) e il racconto del ritorno a Berlino, mesi dopo, quando Ulrike mette su un atelier di moda “alternativa” con gli abiti usati raccattati a Via Sannio, a Porta Portese. È in queste pagine – come in quelle sulla fotografia, in quelle sul cinema, – che la Edschmid dà il meglio di sé, e ricrea un mondo