La storia in giallo del Sudafrica
Autore: Guido Caldiron
Testata: Il Manifesto
Data: 6 luglio 2015
Se non fosse che lavora per la polizia di Città del Capo, l’ispettore Bennie Griessel, creato oltre una decina di anni fa dallo scrittore sudafricano Deon Meyer, potrebbe assomigliare a un Philip Marlowe forse un po’ più triste e depressivo, altrettanto alcolico e che alla latente misoginia dell’originale chandleriano contrappone una vita affettiva e relazionale decisamente disastrosa. Oltre alla passione per la bottiglia, Griessel condivide con Marlowe l’esperienza decisamente sui generis di attraversare i territori inediti e pericolosi di una società in tumultuosa trasformazione: per il detective, l’America degli anni Trenta ancora scossa dagli effetti della grande crisi, per lo sbirro del Capo, il Sudafrica del dopo apartheid dove dietro anche al più banale fatto di sangue rischia di celarsi l’ombra lunga di poteri consolidati che non vogliono mollare la presa.
Soprattutto, Griessel, afrikaner riluttante, si trova esattamente al centro di quel cambiamento che scuote il suo paese: la speciale sezione omicidi che guida è la punta avanzata delle forze di polizia locali, dove gli eredi dei coloni bianchi lavorano spesso agli ordini dei loro colleghi xhosa, zulu, malesi o indiani. Per Deon Meyer che attraverso una decina di romanzi, molti dei quali, compreso l’ultimo, Cobra (pp. 394, euro 16), pubblicati nel nostro paese da e/o, ha tracciato una sorta di biografia criminale del nuovo Sudafrica, seguendo da vicino le indagini e il modus operandi delle forze dell’ordine, proprio la squadra di Griessel rappresenta un microcosmo della società che il sogno di liberazione e la lotta di Nelson Mandela avevano annunciato qualche decennio fa.
Lei è oggi considerato come uno degli scrittori sudafricani più noti e tradotti a livello internazionale e come il capofila della «crime novel» del paese. Quando e perché ha iniziato a scrivere romanzi gialli?
Durante i decenni dell’apartheid in Sudafrica non è stato pubblicato pressoché nessun noir o thriller, perlomeno che fosse scritto da autori locali: romanzi del genere erano considerati «pericolosi» per l’establishment. Non c’era un divieto preciso, ma per il potere questo tipo di letteratura che descriveva crimini e violenze o che spingeva a guardare oltre la superficie delle cose, poteva indurre gli individui a interrogarsi, a porsi domande scomode. Contemporaneamente, anche per chi era interessato alla scrittura, era difficile pensare di cimentarsi proprio con il giallo, visto che alcuni temi sarebbero stati naturalmente tabù — all’epoca non era nemmeno immaginabile che l’assassino potesse essere un bianco e la vittima un nero, tanto per dire. Sta di fatto che quando, a metà degli anni Novanta ho pubblicato il mio romanzo d’esordio, i giornali hanno parlato della prima crime novel sudafricana negli ultimi trent’anni. Perciò non posso dire di aver avuto dei modelli locali cui ispirarmi: da ragazzino leggevo i classici britannici e americani del genere tradotti in inglese. Per scrivere dei gialli si deve vivere in una democrazia dove si è liberi di osservare anche il lato in ombra delle cose, non in un regime totalitario che stabilisce d’ufficio dove stiano di casa il bene e il male.
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Resta l’apparente paradosso che proprio quella polizia che fu il simbolo più brutale del regime dell’apartheid e del dominio dei bianchi, si trasforma nei suoi romanzi in una sorta di modello d’integrazione del nuovo Sudafrica: nella squadra dei Falchi che indaga a Città del Capo sui crimini più efferati, ci sono bianchi, neri, malesi…
Non è un paradosso e non si tratta soltanto di una scelta narrativa, ma di qualcosa che sta effettivamente avvenendo nel mio paese. In una realtà complessa come quella del Sudafrica, la polizia ha rappresentato da sempre una sorta di microcosmo della società. Anche negli anni dell’apartheid, quando la divisione tra i diversi gruppi etnici regolava la vita nazionale, le forze dell’ordine potevano contare su agenti provenienti da ogni comunità — non solo i bianchi, ma anche i neri e gli asiatici -, per poter trovare informatori e contatti nei diversi quartieri. Ma, naturalmente, non solo ai vertici, la maggioranza del corpo era composta da bianchi, spesso violenti e razzisti. E ancora nel periodo in cui ho iniziato a scrivere, l’immagine delle forze dell’ordine era quella di un baluardo del regime segregazionista, composto da poliziotti arroganti e aggressivi, oltre che sostenitori del dominio dei bianchi; c’era anche molta corruzione e abusi. Però, proprio perché si tratta di un lavoro che ha a che fare con le strade, con la vita reale, che deve registrare le trasformazioni sociali, quello della polizia è forse il settore dove il cambiamento del Sudafrica si è messo in moto più rapidamente. Certo, ci sono state anche delle resistenze, come ho raccontato nei miei primi romanzi: gli agenti bianchi, specie i più anziani, temevano di perdere privilegi e poteri, e si sono opposti all’integrazione. Ma poi, nel giro di cinque o sei anni, si sono cominciati a formare nuovi funzionari provenienti dalle comunità in precedenza escluse dal comando e proprio la polizia è diventata uno dei simboli tangibili dell’integrazione nel nuovo Sudafrica. Anche perché, nel frattempo, le diseguaglianze che sono cresciute nel paese avevano sempre meno a che fare con la razza, e sempre di più con le quelle sociali.
Le indagini dell’ispettore Griessel si svolgono prevalentemente nei quartieri alti e non nelle township: le interessa di più riflettere sui «crimini dei ricchi» piuttosto che su quelli dei poveri?
Sì, assolutamente. E non si tratta di una casualità, bensì di una scelta precisa. Questo perché da un lato considero le forme di criminalità che coinvolgono i settori più poveri della società sudafricana come un dramma vero, una tragedia, qualcosa che va ben al di là degli obiettivi di un genere letterario che resta comunque d’intrattenimento. Dall’altro, se si vogliono invece insinuare degli elementi di analisi o critica sociale in questo tipo di romanzi, non è certo ai «crimini dei poveri» che si deve guardare. Lì c’è poco da scoprire, le cose sono spesso come appaiono, non c’è mai un gran mistero che si cela dietro furti o rapine: miseria e emarginazione sono dei moventi fin troppo scontati. Se invece si vuole capire qualcosa del potere criminale, si deve rivolgere il proprio sguardo ai colletti bianchi, alle multinazionali, alle mafie internazionali o a intrighi e complotti che hanno a che fare anche con l’economia e la politica che governano il mondo: quelli sì sono ambienti che celano misteri significativi, che originano indagini che meritano di essere svolte e che possono ispirare storie che poi qualcuno avrà voglia di leggere. Solo in questo caso scrivere romanzi polizieschi significa raccontare qualcosa di come va il mondo. Anche nel mio ultimo libro uscito nel vostro paese, Cobra, le vicende di un giovane borseggiatore nero, che ruba per poter mantenere la sorella agli studi, finiscono per intrecciarsi con il rapimento di un cittadino britannico, avvenuto in una lussuosa villa immersa nella zona dei vigneti di Città del Capo; fatto, quest’ultimo che finirà per rivelare l’esistenza di un intrigo internazionale che ha a che fare anche con il mondo della finanza e della politica. Da un crimine qualunque, che da solo non farebbe storia, si arriva così a descrivere l’orizzonte di poteri criminali estesi e ramificati.
In «Cobra» torna la sua ossessione per la geografia sociale di Città del Capo: cosa ci racconta la metropoli sudafricana?
Credo testimoni prima di tutto della grande complessità e ricchezza della nostra società che è un vero crogiolo di culture; questo oltre al fatto che in Sudafrica una città racchiude sempre una sorta di mondo proprio che si è formato in quel determinato modo nel corso dei secoli, plasmando non solo le abitudini, ma anche l’identità degli individui. In questo, Città del Capo, forse anche grazie al porto, alla sua apertura verso il mondo, mi è sempre sembrata il laboratorio più riuscito dell’identità plurale della «nazione arcobaleno».
Mi spiego: Johannesburg è una città cosmopolita che guarda soprattutto al Nord ed è stata sempre molto influenzata dalla cultura inglese oltre che da quella afrikaans; a Durban emergono le radici zulu, britanniche ed indiane; e via dicendo. In questo senso, a Città del Capo convivono i diversi ceppi originali del paese, zulu, xhosa, oltre a quello inglese, afrikaneer, ma anche malese, visto che gli olandesi avevano portato con sé molti schiavi provenienti dalla Malesia: con il risultato che il mix di culture che vi si respira è il più vario e ampio di tutto il Sudafrica. E tutto ciò si riverbera anche nella vita quotidiana della metropoli: ogni quartiere ha il suo ritmo, il suo stile, direi perfino il suo modo di ragionare. Ed è questa ricchezza che cerco di rendere nei miei libri, partendo dalle zone residenziali del Nord come Oranjezicht per arrivare fino alle ex fabbriche del quartiere di Woodstock, scattando fotografie e parlando con le gente per strada, per cogliere anche le più piccole trasformazioni: sono fedele a Città del Capo e voglio che da lì i miei lettori guardino al Sudafrica.
Il suo primo romanzo è uscito in Sudafrica nel 1994, l’anno dell’elezione di Nelson Mandela. Successivamente i suoi libri hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo della «nazione arcobaleno» fino ai giorni nostri. Considera che il cammino che si è aperto allora con la fine dell’Apartheid si sia compiuto fino in fondo?
In tutti questi lunghi anni i miei romanzi e il mio lavoro sono stati influenzati da quanto avveniva nel paese, visto che io ho seguito e cercato di partecipare, non solo emotivamente, all’entusiasmante cambiamento che era in corso. Ci manca un leader saggio e illuminato come Mandela, in grado di decidere ma anche dotato di un grande cuore. Oggi invece abbiamo un governo corrotto e guidato da una personalità che ha solo contribuito a dividere e impoverire la società sudafricana. Perché il Sudafrica non arretri nella sua ricerca di democrazia e uguaglianza c’è bisogno di una nuova classe dirigente, formata da persone oneste e capaci. Le diseguaglianze che un tempo riguardavano soprattutto il colore della pelle, oggi hanno sempre più a che fare con le condizioni sociali, sono il risultato delle nuove povertà che il paese stenta ad affrontare. Dobbiamo ancora portare a compimento il sogno di Mandela.
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