Ma già prima di giugno - Patrizia Rinaldi
Autore: Elisabetta Bolondi
Testata: Sololibri
Data: 18 maggio 2015
Patrizia Rinaldi è un’autrice napoletana e, come altri nomi noti della più recente narrativa partenopea, Antonella Cilento, Valeria Parrella, la misteriosa Elena Ferrante, ci racconta in Ma già prima di giugno con una lingua originale una città i cui abitanti vivono nel tempo, in questo caso dagli anni quaranta fin quasi ai nostri giorni, in grande sofferenza. La Storia si confonde con le difficoltà di una quotidianità durissima, piena di lutti e pregiudizi, di miseria e di solitudine, di rapporti familiari insani, di scarse prospettive di riscatto.
Il romanzo si sdoppia nel racconto di due donne: una madre, Maria Antonia, le cui vicende ci vengono narrate seguendo in modo lineare il suo percorso di vita, e sua figlia, Ena, colta invece alla fine della sua vita, che si racconta immobile in un letto dove la rottura del bacino l’ha confinata, con un’ironia che rasenta il sarcasmo.
I capitoli del libro alternano una voce all’altra, un tempo all’altro, una personalità forte e dominante, quella di Maria Antonia, ad un’altra che appare rassegnata e sconfitta, Ena.
La caratteristica che più colpisce nel libro di Patrizia Rinaldi è l’uso della lingua: la presenza del dialetto, nelle sue forme più colorite, nelle costruzioni vernacolari che rimandano ad un’antica tradizione, costituisce un punto fermo nella ricostruzione dei caratteri dei personaggi .
“Zoccole fetenti, fetenti come uomini arraggiati, fetenti di guerre tra zoccole… zoccole di chiavica di nave, se si avvicinano le ammazzo, ma come? Ne sono troppe, troppe.”
Maria Antonia, appena venticinquenne, è fuggita con in braccio la piccola Lucia da Spalato, dove aveva raggiunto il marito Augusto, che poi non rivedrà più, scomparso nelle foibe. Sulla nave che deve riportarla in Italia i topi provano ad aggredirla mentre cerca di riposare, ma lei non si arrende, come non si arrenderà di fronte alle avversità che la vita le pone davanti. Infatti, pur nella disperazione di una vita durissima, spuntano momenti di grande leggerezza: l’amore per i fiori, che scopre nel vecchio cortile di un oscuro palazzo nobiliare napoletano dove vive una monca santa, a cui vuole domandare la sorte di suo marito scomparso.
“La donna aveva nei confronti dei fiori un sentimento che non riusciva a giustificare. Le fresie erano di sicuro il profumo di un bene nascente. La buganvillea era l’immagine sacra di un amore straziato dalle inevitabili lacrime di sangue della passione. Le rose piccole rampicanti rispondevano a quella gioia di cartoline con i cuori...”
E mentre seguiamo Maria Antonia con i suoi amanti, la faticosa conquista dell’eredità di una villa al mare, i suoi tre figli, il rapporto con mamma, con il secondo marito molto più giovane di lei, il padre di Ena, la più disprezzata fra le sue figlie, ecco che ci troviamo in tempi molto più recenti a seguire con difficoltà la triste vecchiaia di quest’ultima, prigioniera in un letto ortopedico di un corpo in disfacimento, assistita da una donna dell’est che lei chiama Abbadessa, un po’ badante, un po’ superiora del convento.
Fra la malata e la sua assistente si coglie il senso della difficoltà della fine della vita per tutti gli anziani soli, costretti alla convivenza con stranieri che per bisogno hanno scelto di abbandonare il loro paese per dedicarsi alla cura di vecchi per i quali nutrono per lo più disprezzo. Perché prolungare la vita di esseri ormai inutili, sembra pensare la donna, sfuggita ad una vita di sfruttamento e di indigenza? Eppure tra Ena e Abbadessa scatta inevitabilmente una forma di ambigua intimità, necessariamente fisica, ma non solo: la giovane è incuriosita che la ormai vecchia malata sia stata una donna vitale, sessualmente libera, curiosa della vita, una “Vec-chia por-ca”.
Ena tuttavia sa che i suoi giorni sono contati, durerà fino a giugno, come recita un poesia di Elio Pagliarani che riesce ancora a declamare a memoria.
”Ma già prima del termine di giugno / la mia palinodia divenne sorte /nessun antagonista alla mia morte…”
La sorte però le riserva un’altra sorpresa, un ictus devastante che la obbliga in ospedale, dove riceve la visita inaspettata dell’amica più cara, Giuseppina, che credeva persa per sempre. L’incontro fra le due vecchiaie, nei ricordi di tempi felici, conclude in modo suggestivo il bel romanzo di Patrizia Rinaldi: la slava Abbadessa sfuggita alle rovine dell’impero sovietico, Giuseppina che non riesce più a parlare correttamente dopo una paralisi e Ena, giunta davvero alla fine, raccontano solitudini, incomprensioni, malattie, difficoltà di comunicazione, bilanci fallimentari.
Sigarette e morfina per alleviare la sofferenza degli ultimi giorni, le parolacce grevi nel tempo della giovinezza, la storia di Ercole e Palomma, i modi di dire che ancora oggi si sentono nelle parlate meridionali…”Tu addo’ vedi e addo’ cechi”, insomma un insieme poetico e letterario che rende il romanzo interessante e di piacevole lettura.