Chi si ostina a interpretare la lotta armata come scontro esclusivo fra “ruoli” (buoni e cattivi sui fronti opposti del Bene e del Male) tralascia il dato fondamentale che negli anni Settanta/Ottanta la guerra urbana, come ogni guerra, è stata combattuta, anzi tutto, fra persone. Persone qualsiasi (o quasi), a prescindere da scelte di campo, divise e armi in dotazione. Persone spesso dal destino segnato ma con alle spalle un lavoro, gli affetti, una vita più o meno uguale a quella di molti. Tutt’altro che eroi ed anti-eroi da agiografia, tutt’altro che personaggi tagliati con l’accetta come nei docu-fiction peggiori. “La scomparsa di Philip S.” (Ulrike Edschmid, edizioni e/o, 2015) ci giunge dal profondo di quegli anni e mette addosso un freddo così, proprio perché la politica è lasciata contigua, (è lasciata a movente), a vantaggio di un focus quasi “privato”, quello che inquadra trasversalmente il “terrorista” Philip S.- cineasta divergente, idealista - che un giorno decide di imbracciare le armi e saltare il fosso della lotta all’imperialismo americano e non si ferma più. Né mostro né eroe, soltanto uno che ci ha creduto fino in fondo, al punto da immolare se stesso al Grande Sogno Rosso.
Di Philip S.,Ulrike Edschmid è stata la compagna di vita: dagli anni già furoreggianti degli studi all’Accademia del cinema di Berlino a quelli diventati scopertamente di piombo anche in Germania. Ne ha condiviso gli slanci creativi, le esperienze, i sogni collettivi, i viaggi, la fotografia, il primo impegno politico, persino l’arresto. A un certo punto ha scelto da che parte stare - dalla parte dell’amore per il figlio piccolo - e l’ha piantata lì. Col tempo e nel tempo lei è diventata insegnante e scrittrice. Philip S., invece, è morto giovane. Come morivano giovani in tanti, in quei giorni. Giustiziato a freddo, per vendetta, scientemente, a seguito di un conflitto a fuoco con la polizia (alle nostre latitudini è successo, per esempio, alla brigatista Mara Cagol). Segno che le storie degli anni di piombo si somigliano tutte e non andrebbero decontestualizzate: sono storie stratificate come la vita vera, accomunate certo dall’azzardo ma anche dallo slancio solidaristico e, in molti casi, dal travaglio interiore.
“La scomparsa di Philip S.” - titolo emblematico, vagamente kafkiano, con quel cognome obliato, a cancellare un’identità, a sottolineare una rimozione - è molto di più che un libro-documento. Piuttosto un romanzo tout-court, scritto con uno stile snello, elegante, densissimo, che cattura dall’inizio alla fine. Un romanzo-verità dalla struttura circolare: apre e chiude con l’esecuzione di Philip S., e nel mezzo, pagina dopo pagina, avanza per flash back - ricordi, istantanee, episodi vissuti e condivisi -. Nel mezzo ancora, soprattutto, la morte annunciata di un (giovane) uomo - la sua (inconsapevole?) corsa a perdifiato verso la clandestinità quindi sempre più verso l’abisso -, e al tempo stesso la storia di una generazione intera, una generazione luci e ombre per eccesso di slanci ideali.
“La scomparsa di Philip S.” è, in ultimo, un romanzo che vi consiglio di non perdere. Un romanzo interiore dalla forza vigorosa e dalla scrittura bellissima, che non si dimentica.