Dal 9 febbraio al 9 marzo del 1971, Christa Wolf compone Nachruf auf Lebende. Die Flucht (Suhrkamp, 2014), lungo racconto fino a pochi mesi fa inedito e visibile solo nell’Archivio dell’Accademia di Belle Arti di Berlino. Ora grazie alla traduzione di Anita Raja ne possiamo disporre anche in Italia con il titolo Epitaffio per i vivi. La fuga (edizioni e/o, pp. 160, euro 14,50) e la sua lettura è un’occasione unica. Racconto preparatorio a Trama d’infanzia, indiscusso capolavoro composto cinque anni più tardi, è un evento per diverse ragioni. La prima è anche la più importante perché ha a che fare con la descrizione puntuale della fuga di quel gennaio del 1945, qui espunta dai piani linguistici e della memoria che si moltiplicheranno in Trama d’infanzia, illuminando il momento in cui la ragazzina protagonista del racconto, che acquisisce il nome di Nelly Jordan nel romanzo del 1976, lascia la sua casa e la sua città per evitare l’Armata Rossa che incombe. Negli anni precedenti sono molti altri i momenti di rottura e panico che donne e uomini affrontano, per via della guerra, del nazismo e di un tessuto sociale e culturale europeo complicato. Tutte cose di cui Wolf sommamente ha dato rappresentazione insieme alle sue esperienze letterarie e politiche. E proprio dalla stessa città natale di Christa Wolf, Landsberg an der Warthe, oggi Gorzów Wielkopolski in Polonia si conosce il luogo dell’infanzia per eccellenza, Sonnenplatz, in cui questo splendido racconto svolge e riavvolge una lezione verticale.
Orrore e vergogna
Il filo del discorso si distende in un quadro essenziale e necessario in cui la scrittrice presagisce già che – per dirla con Ingeborg Bachmann – «s’avanzano giorni più duri» e «il tempo dilazionato e revocabile già appare all’orizzonte». È infatti un tempo controverso d’amore, e soprattutto di guerra, a dire parole che fanno «scintillare gli occhi», come quelle ascoltate in seguito da Nelly Jordan, impronunciabili ai bambini eppure così profondamente comprese nonostante il divieto da parte degli adulti. Alcune appaiono anche qui, interpellate dalla signorina Strauch che durante le ore scolastiche avvia una piccola indagine su quale sia il sentimento peggiore mai provato. La bambina pensa alla vergogna ma poi scrive paura anche se è l’orrore che di fatto l’ha assediata. E a dirla tutta un terrore puro quando più tardi senza nessun preavviso la madre Charlotte la lascia sull’autocarro pronto per la fuga e rimane a sistemare le ultime cose in città e nel negozio che al tempo gestiva. È in effetti la figura della madre Charlotte che si ha l’opportunità di conoscere più a fondo e attraverso il racconto della figlia: «Mia madre era in disaccordo con la vita che era costretta a fare. La foto di lei da giovane che conoscevo bene era in disaccordo con la madre che conoscevo altrettanto bene, e questo era il motivo per cui la foto l’amavo ma intanto nascondevo quell’amore come qualcosa di proibito e con l’acuta sensazione di sconvenienza propria dei bambini di famiglie che ingannano se stesse».
La partenza poi elaborata nella memoria, si salda alla relazione con la madre che a questa altezza appare come pietra angolare di un desiderio tormentoso di ricognizione. Comprensione e vicinanza sono i momenti attraverso cui la bambina fa esperienza della madre, qui figura centrale che ammonisce, sagoma materna che nella sua apparizione avvisa della chiusura del tempo infantile. Sulla porta del corridoio illuminato quella sagoma visibile è soglia di appassionato e ambivalente attaccamento.
«Noi avevamo avuto una bella infanzia, e adesso era finita, eravamo stati comparse in una commedia il cui lieto fine ci era stato garantito fin dal giorno della nascita, ma ecco che ci gettavano in mezzo a una tragedia le cui leggi ci erano del tutto estranee – anche se in un angolino della coscienza siamo sempre un po’ lusingati se ci viene assegnata una parte difficile e che però può dare buoni frutti». E se in Trama d’infanzia il corpo della memoria sospetta che «noi viviamo in un tempo più rapidamente deperibile, un tempo fatto di una materia diversa dalla materia durevole dei tempi passati», l’esercizio intorno al deperimento diviene in Epitaffio per i vivi. La fuga oggetto di riflessione ulteriore: «questa parola mi si è impressa a fondo e si è accompagnata alla convinzione che i bambini sono merci facilmente deperibili», esposizione dell’inerme alla mancanza di cura. Tuttavia il deterioramento è anche metafora di quanto sta accadendo in quegli anni, «come se la grande responsabile di tutto ciò che succedeva a noi e agli altri, la guerra, ora avesse finalmente deciso, in base al suo senso di giustizia, di non temporeggiare più, ma di farci capire in tutta franchezza, poiché adesso le piaceva così, ciò che eravamo ai suoi occhi in realtà: merda».
Quando la ragazzina sale su quel veicolo di fortuna si aspetta di provare dolore ma non succede. Avverte invece un’inesplicabile freddezza che attraversa i confini del suo corpo disobbediente e che la mette in contatto con uno strano e materiale deperimento dell’anima, simile a «un orbettino sotto incantesimo». Passa così in rassegna luoghi interminabili e conosciuti ai quali attribuisce amicizie e affetti; così l’Oder sarà oltrepassato presto, e nel frattempo guarda scorrere le case operaie e dei ferrovieri, il vicolo del Mattatoio, il villaggio dei pescatori, tutto in silenzio seppure in compagnia del fratello piccolo, e di zie, nonni e parenti che poi si ritroveranno più avanti. Il padre è stato già reclutato forzatamente nel battaglione Marinesturm.
Confini interiori
È nell’esperimento del distacco che i confini di Sonnenplatz si confondono con quelli interiori. Si tocca cioè la distanza fisica dalla propria madre e il vuoto che quella donna ha sempre cercato di mimetizzare e riempire facendo del proprio meglio, insieme allo spavento di una quindicenne per aver fatto l’incontro forse più atteso: «nel mio intimo avevo detto Io, a me stessa, e non riuscivo a smettere di ripetermelo (…) Insorgevo e ne ero molto fiera». Su quell’autocarro, quando la madre in lontananza le consente la visione dell’angolo acuto in cui finiscono strade e piazze che si fanno sempre più piccole, nella sparizione di tutto ciò che fino a quel momento aveva creduto dotato di tangibilità, sente che il senso del dovere di Charlotte, della propria madre, la inchioda a una verità più grande: dare giustizia di se stessa, l’accommiatarsi dalla colpa e scoprire da sé il gioco speculare dei significati del mondo. Non succede allo stesso modo in Trama d’infanzia, nel tentativo di descrivere il lavoro maturo della memoria come «caduta nel pozzo del tempo, in fondo al quale la bambina è seduta». Niente qui si contrae bensì tutto è in formazione, in questo racconto lungo che — come segnala Gerhard Wolf nella postfazione — può servire davvero come epitaffio per i vivi; viene cioè ricordato che anche nell’estrema ingiustizia della separazione, nello straniamento della guerra c’è spazio per la narrazione di una prima rivolta a cui ne seguiranno delle altre. Anche se s’avanzano giorni più duri.
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