Nei romanzi di formazione ci sono voci di giovani protagonisti che narrano, magari sussurrando in prima persona, la storia di come diventarono se stessi. Cristina Lio diventò tutta se stessa dopo un’adolescenza – e anche gli anni prima – fuori dall’ordinario, in una storia delicata, un po’ autobiografica un po’ racconto, dentro la vita e il progetto collettivo di una stagione comunitaria.In Chi resta deve capire, l’autrice lametina ricorda il tempo passato con la sua famiglia attraversando i giorni in una grande comunità di accoglienza, attraversando figure di preti, di persone con disabilità, obiettori di coscienza e tossicodipendenti: una grande famiglia, i cui membri condividono le fragilità di un mondo variopinto e composito.Una famiglia certo molto singolare, dove emerge la figura di un padre per tutti, sacerdote e uomo, impetuoso anche, quando non ci pensa due volte a scaraventare dalla finestra le valigie degli sregolati – fossero anche geniali – ma lasciando sempre uno spiraglio aperto al figliol prodigo rinsavito. E poi la figura del padre di Cristina, instancabile e in mille faccende affaccendato, il motore diesel della comunità, sempre in sella al furgoncino, scarrozzando in lungo e in largo anche quella piccola bambina dagli occhi stretti e scuri, spalancati sul desiderio di comprendere una vita “normale”, che si avvicinasse di più a quella di tanti suoi coetanei.Le doti di questa giovane scrittrice si esprimono in una narrazione suggestiva e asciutta, fuori da ogni patema lirico, in cui aneddoti e racconti si avvicendano davanti ad uno sguardo comunque introspettivo, nonostante le rievocazioni siano intercalate da una delicata ironia. Un’interessante testimonianza sulla possibilità di misurare l’intera esistenza in una ridda di piccole emozioni, tra i ricordi di un mondo frenetico e travolgente, quale quello delle comunità, immersi in un intreccio di vite, di incontri e di scontri inevitabili all’interno di una forzata convivenza, ricordi diluiti nella ricerca di un senso da appiccicare alla quotidianità. Piccoli episodi di vita immatura, che spesso l’autrice descrive con toni esilaranti: come il racconto del giorno della preparazione del cenone di Capodanno; o del momento festoso del ballo di gruppo, che rivela il tentativo goffo di Cristina – Cristina la riservata, Cristina sensibilissima, così intenta sempre a guardarsi dentro e a gettare gli occhi oltre la siepe – di nascondersi al coinvolgimento goliardico. E poi ancora un distillato di figure umane all’interno di un piccolo mondo che del mondo intero ritrae la varietà, e se ne infischia del pullulare frenetico che si palesa fuori. Piccolo mondo di ghiotti sorpresi a svaligiare frigoriferi, di uomini e donne intenti a lottare contro le dipendenze e a combattere a favore della libertà, di calore e amicizia comunque precaria.
Ma più di ogni altra, c’è una figura femminile importante tra queste pagine, Veronica, una giovane tossica dalla personalità affascinante, dotata di particolare talento nel disegno, che stringe con quella bambina un rapporto di delicata empatia. I disegni che di volta in volta accompagnano i loro punti di contatto tracciano le linee di questo legame affettivo, e segnano anche i tempi dell’abbandono, per le partenze improvvise di Veronica. Perché non è affatto un’eroina, Veronica, con i suoi problemi di sopravvivenza, le sue inadeguatezze, eppure ogni suo sospiro o scarabocchio dice a Cristina che i giorni anche lì dentro sono fatti per sognare aria piena e colori.La piccola Cristina cerca materiale per costruire il suo futuro, per costruire un modo d’amare e di affrontare la realtà, e lo fa raccontando la sua esperienza irripetibile, certo individuale, ma che si dilegua in un’espressione collettiva dagli innumerevoli profili, rivelando inevitabilmente se stessa nella scrittura, senza mai sottrarsi. La sua capacità di tratteggiare i personaggi con pochi efficaci tocchi di penna, rivela legami intensi e profondi con volti e luoghi, come fosse un dono, un atto di grande generosità che Cristina fa a chi ha vissuto quegli stessi percorsi, a chi li sta vivendo adesso.E lo fa con quell’ironia tipica della malinconia che guarda ai propri trascorsi, quando la vita che ci calza addosso – e che non abbiamo scelto – ci proietta in un mondo che non sembra proprio tagliato su misura per noi. O forse sì, Cristina non lo lascia comprendere. Trova soltanto un suo modo di vivere intrecciando certi suoi delicati deliri solitari con le persone che ama, che ama magari per un giorno soltanto, perché al risveglio è probabile che qualcuno sia già andato via, fuggito da quel luogo o da se stesso, non si sa.
Cristina Lio è nata a Lamezia Terme, si è laureata in Dams e si è specializzata in sceneggiatura cinematografica e televisiva a Milano. Attualmente lavora all’interno della Comunità Progetto Sud, occupandosi di amministrazione e di progetti di educazione con i giovani.