"È meglio il libro" è una frase che abbiamo sentito tante, tantissime volte, al punto che ormai ci sembra un luogo comune. Però, quando Noi e la Giulia, tratto dal romanzo di Fabio Bartolomei Giulia 1300 e altri miracoli, è uscito al cinema, abbiamo pensato di chiederci se fosse meglio il libro o meglio il film come se quella domanda fosse stata posta per la prima volta. E abbiamo deciso di giocarci. Nellie ha letto il libro, ma non ha visto il film. Silvia, al contrario, è andata al cinema senza avere letto il libro. Poi tutte e due hanno raccontato cos'hanno letto e visto, senza consultarsi.
Quindi, "È meglio il libro o è meglio il film?" Alla fine deciderlo sta a voi!
IL LIBRO
Ci sono Claudio, Fabio, Diego e una Giulia 1300 sepolta sotto diversi strati di terra. Potrebbe sembrare l’inizio di una barzelletta, e in qualche modo potrebbe anche esserlo, se non fosse che Fabio Bartolomei, in Giulia 1300 e altri miracoli, voglia raccontare l’Italia che viviamo in questi anni in modo ironico, ma senza tralasciare tutto ciò che il nostro paese nasconde nell’armadio, quei piccoli scheletri che ancora oggi spaventano e inquietano chi si ritrova a sognare di cambiare la propria vita. Ma stiamo sfrecciando troppo velocemente con la nostra Giulia, facciamo un passo indietro.
Ci sono Claudio, Fabio e Diego, dicevamo. All’apparenza così diversi eppure uniti da un unico sogno: fuggire dalle proprie vite. Quarantenni delusi dal successo, dall’insuccesso e in generale dalla vita, si ritrovano casualmente davanti a un casale in vendita nel campano che, per tutti loro, può diventare la via d’uscita, la salvezza dalla noiosa quotidianità, dalla crisi (economica ma soprattutto personale) che i nostri eroi stanno vivendo. E quando si è soli e spaventati ci vuole ben poco per fidarsi delle prime persone che si incontrano, soprattutto se con queste si condivide lo stesso sogno: trasferirsi in campagna e aprire un agriturismo, abbandonarsi alla natura e reinventare la propria vita e la propria professione. Fatti due conti in tavola, il gioco è fatto: si iniziano i lavori di ristrutturazione del casale comprato in società dai tre protagonisti.
Ma a Fabio Bartolomei non piaceva l’idea del sogno che si realizza così semplicemente e infatti, senza troppi giri di parole, ma con cambi di scena repentini, inserisce nella nostraavventura non solo dei semplici ostacoli economici, ma anche dei veri e colpi di scena a metàstrada fra il surreale e il thriller più spaventoso, tanto da lasciare il lettore un poco spiazzato. Il sogno di realizzare il proprio progetto deve fare i conti con i camorristi che, con l’inaspettato aiuto di nuovi amici africani, riescono a essere imprigionati nello scantinato del casale, senza troppe conseguenze se non qualche senso di colpa.
E poi c’è lei, Giulia, l’automobile del camorrista che viene messa nella buca scavata per creare la piscina olimpionica senza sapere, però, che la radio ha alcuni problemi tecnici e spesso si accenderà espandendo musica classica per tutto il giardino del casale dove la Giulia riposerà per nascondere le tracce del “rapimento involontario”.
È tutto un poco strano, leggermente confusionario. Il sogno italiano lo si vive e si cerca diraggiungerlo in modo ironico, ricamando sulla storia delle melodie “della terra” per poter attirare nuovi clienti in un agriturismo che, piccolo cliché, verrà rimodernato e curato da una giovane donna misteriosamente apparsa fra le pagine del libro e, ovviamente, fra i pensieri del protagonista.
Giulia 1300 e altri miracoli, quindi, si presenta come un mix di svariati ingredienti genuiniche tentano di amalgamarsi fra loro grazie anche a uno stile semplice e istintivo. Perché nelle pagine di Fabio Bartolomei si ride, ci si stupisce ma, soprattutto, si sogna.
Avete ancora dei dubbi? Ora vi convinco:
- Solo la descrizione del paesaggio circostante il casale è un ottimo motivo per evadere dalle nostre grigie giornate o semplicemente per googlare “B&B in campagna” e passare il weekend fuori porta;
- La musica classica è una presenza costante, tanto da farci pensare che forse possiamo smettere di ascoltare sempre e solo gli Smashing Pumpkins;
- I colpi di fulmine esistono, sono così scontati nei libri che a forza di leggerli poi si sa mai che ti capita anche nella vita;
- Quando leggi le battute in napoletano è impossibile non imitarne l’accento con il pensiero: giuro;
- Il vero miracolo di Giulia 1300 è che nessun personaggio ingrassi nonostante continuino a mangiare ininterrottamente.
Nellie Airoldi
IL FILM
Quando dico che non mi piace particolarmente il cinema, che prima di usare due ore della mia vita per vedere un film ci sono almeno nove cose che preferisco fare, molti mi guardano con un'espressione tra lo schifato e il risentito. Essere appassionati di cinema sembra essere fondamentale per una grossa fetta di persone che conosco, e il fatto che io sia – passatemi l'espressione – una persona che si è appassionata alla letteratura e ai libri - rende la mia non-passione per la pellicola un’onta gravissima. Io non mi sono mai sentita schifata se una persona che conosco mi dice che si annoia a leggere un libro. Al massimo mi sono sentita dispiaciuta del fatto che non apprezzasse un buon romanzo, o che non vivesse l’esperienza della lettura di un libro in un modo simile al mio. Come disse il buon Cirillo, "essere letterario non è un upgrade" e in cuor mio credo valga per ogni cosa.
Cosa mi ha spinto, quando in Finzioni è aleggiata la possibilità di scrivere un pezzo sul film Noi e la Giulia, ad alzare la mano e a dire IOIOIO!? Chissà. L'autolesionismo, forse. O il voler provare a vedere un film non impegnato. O la vecchia voce che mi dice: deve piacerti per forza andare al cinema, piace a tutti, piacerà anche a te.
Tempo fa ho letto un libro di Francesco Piccolo che si intitola L'Italia Spensierata. In questo libro Piccolo fa una serie di cose che potremmo definire "popolari", da cittadino medio. Per esempio andare a fare il pubblico a Domenica In, oppure passare una giornata in Autogrill, o ancora andare a vedere il cinepanettone al cinema Adriano di piazza Cavour, nel giorno di Santo Stefano. Possiamo dire che Piccolo porta il concetto di popolare alle vette più estreme. E cerca di vedere di nascosto l'effetto che fa. Il nazionalpopolare è snobbato negli ambienti chic ma la verità è che è amato da tutti. Non è bello ma sa essere divertente e noi tutti ogni tanto ci affacciamo a vederne i profili, magari da lontano, come a non volerci finire dentro, o commentandolo in modo arguto, per far vedere che si può essere indie, comprare in pre-order il nuovo album del gruppo islandese col nome impronunciabile, ma amare Sanremo. Mi viene in mente Francesco Piccolo mentre varco la soglia della Multisala The Space Cinema Parma Campus. Di questo film, Noi e la Giulia, so solo un paio di cose: è tratto da un libro di Fabio Bartolomei, un autore di cui ho letto solo We Are Family, un libro bellino con una copertina brutta, e che c'è Luca Argentero.
Ho fino a qui citato due libri. Uno è ovviamente la parte invisibile di questo iceberg, ciò da cui tutto è partito; l'altro è un libro che con questo film non c'entra proprio niente e che mi è venuto in mente per via che sto andando in una multisala, proprio come ha fatto Francesco Piccolo anni fa. Lo specifico perché c'è un altro punto che voglio sottolineare nella mia esperienza di non-cinefila. Ogni volta che leggo un libro, quasi sempre me ne viene in mente un altro che ho letto prima. La narrazione che ho di fronte per la prima volta, un nuovo viottolo che sto esplorando ex-novo, mi porta a ricordare sentieri che ho percorso in precedenza. Il mio nuovo sentiero è stato sicuramente percorso da altri, che hanno l'hanno segnato, tracciando dei segni colorati per chi verrà dopo di loro, o solo per il gusto di farlo. Io però sono così immersa in questa nuova avventura, che se anche i segni fossero visibili, non li vedrei. Ma vedo i miei, lasciati su tronchi di un'altra strada e trovo somiglianze e differenze. E sono così profondi da saltare fuori persino entrando in un cinema.
I film invece non li conosco. Non mi ci appassiono. Non ho segni sugli alberi da ricordare. E se questo mi fa sentire meno sicura, se mi dà cioè meno appigli a cui aggrapparmi, da certi punti di vista mi rende totalmente libera. Non ho collegamenti, reti invisibili sotto ai piedi. Tutto è nuovo, il punto zero. La mia non-passione per in cinema paradossalmente allarga l'angolo della mia fruizione di questo prodotto che scorrerà davanti ai miei occhi. Sono una vergine. Questa è una cosa che amo follemente.
Il film inizia bene, c'è Luca Argentero tutto sudato con una pala in mano che scava, o seppellisce qualcosa. Con lui ci sono altre persone e una voce in sottofondo che dice che non hanno vinto, ma nemmeno perso. La prima cosa che penso, è che quando guardo un film italiano ho sempre la sensazione che da un momento all'altro si possa cadere in due rischi: il rischio-primo, Muccino, cioè la smielata sulla crisi dei trenta/quarantenni con una storia d'amore complicata e l'incapacità di diventare grandi; il rischio-secondo, Boldi-Desica, cioè il cine-panettone con le battute a doppio senso e il comico napoletano che parla napoletano e fa ridere tutti anche se la battuta non fa ridere.
Devo ammettere che al secondo 25 del film, mentre la voce di Argentero dice che non hanno vinto ma nemmeno perso in una scena al ralenti, io penso che potrebbe essere un film di Muccino. Per un attimo ho perso il mio vergine punto di vista, quindi chiudo il gli occhi e quando li riapro faccio andare via questo pensiero.
La storia è questa: ci sono tre uomini che si presentano all'appuntamento con un agente immobiliare per vedere un casale che ha la forma dell'evasione, del sogno di cambiare la propria vita e di ricominciare con qualcosa che assomigli a un senso. Solo che al prezzo sull'annuncio mancava una cifra e i tutti quei soldi non li hanno. Quindi si fa alla romana, ed ecco che hanno rilevato una catapecchia potenzialmente molto bella.
Da quel momento le cose sono tutte in aggiunta. Arriva Amendola che fa il comunista vecchia guardia, Elisa che vive in un mondo tutto suo, Abu, un ragazzo ghanese che parla poco ma abbastanza da essere indispensabile, il sogno di riscatto in un momento di ristagno. E la camorra, che si presenta sotto forma di un uomo con una Giulia 1300 e due ragazzi coi motorini truccati. Non si sa bene come (davvero non saprei dire, ora, come) nostri protagonisti li chiudono in cantina in ostaggio, e provano a portare avanti il loro sogno di riscatto nascondendo sotto il tappeto le difficoltà.
Ma dove la metti la Giulia? Nella buca della piscina che ancora deve essere costruita. Coprila di terra. Solo che parte la musica, non sempre, quando vuole lei. Perché l'autoradio è rotta e ogni tanto va per conto suo. Dal terreno partono le note di Chopin, e quello che era un casino – seppellire un auto con le chiavi ancora inserite - diventa una fortuna, perché tutti iniziano ad arrivare in quel casale che ora è diventato un agriturismo, per sentire la musica che non si sa dove arrivi e passare del tempo in un posto che dal tempo sembra essersi tolto.
Succedono anche molte altre cose, ma ovviamente non ve le racconto. Vi racconto invece che non è sicuramente un film di P. T. Anderson (citare P. T. Anderson fa sempre un po’ di scena), non si può dire che sia un film "con una fotografia bellissima" (quando qualcuno dice che un film ha una bella fotografia io ho un po’ la sensazione che di quel film non si sappia cosa dire, come la vecchia storia della "struttura debole del romanzo", anche se del resto il romanzo è morto almeno 400 volte da quando l'hanno detto la prima volta). Insomma non è un film che porta qualcosa di nuovo o che dice novità illuminanti ("segui i tuoi sogni e lascia la vita che non ti soddisfa"), e c’è un po’ di buonismo sparso per tutto il film. Però ho riso. Non è una cosa da poco. E sempre per via di quella verginità e di percorsi non battuti, dove alla fine rimane solo il minimo denominatore comune dell’approvazione o disapprovazione, posso dire che:
- Mi sono divertita;
- Nei cinema fa un caldo infernale, veramente;
- Forse avrei preferito spendere altrove le mie 8 euro e 20, ma del resto, se ci sono almeno nove cose che preferirei fare prima di andare al cinema, non credo sia un’affermazione che valga molto, pronunciata da me;
- Claudio Amendola a me piace, proprio come maschio, che ci devo fare;
- Così come la correzione dei refusi, devo fare un solo grande appunto concettuale al regista. Il tamarro del film a un certo punto intona l’inno della Roma. È storicamente risaputo che i tamarri della capitale tifino tutti la Lazio.
Silvia Pelizzari