“Democracy” di Joan Didion – Recensione di Ilenia Zodiaco
“È opinione comune che a prima vista si comprendono molte cose. La prima fugace apparizione di qualcuno all’altro capo della stanza, il colpo d’occhio della casa in cima alla collina, il primo incontro fra i protagonisti: queste sono considerate scene obbligatorie e devono essere ricordate in seguito, richiamate alla memoria nel momento conclusivo, ricordate non solo dai romanzieri ma dai sopravvissuti agli incidenti mortali e dai testimoni di assassinii; ricordati insomma da chiunque debba ricorrere al metodo narrativo.
Non ne sono del tutto certa.”
Blurry: agg, sfuocato, offuscato, annebbiato, mosso.
Questo è l’aggettivo perfetto per descrivere i romanzi di Joan Didion. Evanescenti, difficili da racchiudere in una definizione. Democracy non la smentisce.
Inez Victor è la moglie di un ambizioso senatore americano in corsa per le presidenziali, ma innamorata di Jack Lovett, a metà strada tra una spia e un mercenario, invischiato in faccende torbide. Inez, in quanto personaggio pubblico, è sotto i riflettori: seguita, ripresa, fotografata. Joan Didion vuole restituirci il suo ritratto ma è, appunto, blurry.
Scritto nel 1984, ambientato tra le Hawaii e il Sud-est asiatico, al termine della guerra del Vietnam, nei turbolenti anni 70. Se state pensando ad House of cards, state guardando dalla parte sbagliata. Anzi, Democracy potrebbe essere esattamente l’opposto. Più che di scalate politiche, complotti e strategie meschine, la Didion dipinge personaggi dalla “vista lunga”, l’essere e il non essere preda delle convulsioni di un mondo in cui gli sforzi dei singoli avevano così poca importanza.
Le sue protagoniste, in particolare, vivono con un apparente distacco passivo, uno stato di stordimento, fino a quando inevitabilmente riprendono coscienza di mondi più reali, dolenti.
Democracy (e/o, 2014) è una rete di trucchi, di trappole e di indizi che potrebbero o non potrebbero svelarvi particolari decisivi della storia e dell’altra Storia. Lo stile è come sempre peculiare, quella commistione tra linguaggio giornalistico e letterario, in un processo continuo di rielaborazione tra finzione e realtà, artificio e realismo. Il cuore della sua scrittura sta lì, nel narrare con distacco ironico, offrendoci allo stesso tempo immagini di un’intimità sconcertante:
“Inez Victor alle cinque e quarantasette del mattino del 26 Marzo 1975 che schiaccia contro la guancia la ghirlanda di frangipani sotto la pioggia sulla pista dell’aeroporto. Jack Lovett la stava a guardare. Portatela via da quella dannatissima pioggia disse Jack Lovett, a nessuno in particolare.”
La domanda che ci poniamo da lettori abituati ad un certo ordine e ad una certa consapevolezza – almeno nel capire se ci piace o no quel che abbiamo tra le mani – è : cosa stiamo leggendo esattamente? Troppo raffinato per essere un reportage, troppo distaccato per essere una semplice tragedia romantica, troppo ambiguo per essere un’efficace racconto di una famiglia in caduta libera , troppo personale per essere un resoconto politico. E sebbene non vi sia alcunché di misterioso né accenni di particolare pathos, che ci crediate o no, c’è anche da risolvere un omicidio e la scomparsa di un personaggio. All’inizio sarete spiazzati, confusi. Lasciate passare un paio di giorni. Lasciate che le immagini “fuori fuoco” della Didion si depositino dentro di voi e ci ripenserete, ci rimuginerete, vi renderete conto che è tutto lì. Ogni indizio, ogni sospetto, ogni dialogo senza l’apparente forza della logica, tutto lì. Ogni frammento di questo mosaico, prima separato dagli altri, adesso prende la sua posizione. È lo strano potere della Didion. Farti amare/odiare le sue narrazioni durante la lettura – confonderti, persino – per poi conquistarti.
“Comunque siamo stati insieme. Siamo stati insieme tutta la vita. Se conta il pensiero.”
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