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La noia oscura

Autore: Fabio Pedone
Data: 9 febbraio 2015

Narrativa. «Un dio un animale», il nuovo romanzo uscito per e/o dello scrittore corso Jérôme Ferrari, tra infanzia, amori perduti e una guerra insensata

In una delle scene recu­pe­rate di Apo­ca­lypse Now Redux, Mar­tin Sheen, nel suo viag­gio ini­zia­tico lungo il fiume Lung, arriva a una villa fati­scente sepolta fra le neb­bie che ospita un gruppo di fran­cesi. È una cel­lula di vec­chia Europa sot­tratta al tempo e allo spa­zio nel bel mezzo dell’Indocina. Aurore Clé­ment, fumando lan­guida una pipa d’oppio, gli parla del marito morto e delle pene imme­di­ca­bili che porta nel cuore; poi gli rivela la pro­pria incer­tezza: non sa più se sia un ani­male o un dio. Infine, sgra­nando gli occhi, gli dirà: «ma tu sei tutti e due, capi­tano, sei tutti e due».
Con Un dio un ani­male (tra­du­zione dal fran­cese di Alberto Bracci Testa­secca, pp. 120, euro 13) la casa edi­trice e/o pro­se­gue con entu­sia­smo la pub­bli­ca­zione dell’opera nar­ra­tiva dello scrit­tore corso Jérôme Fer­rari, Prix Gon­court nel 2012 per Il ser­mone sulla caduta di Roma. Il focus geo­gra­fico e ideale del romanzo, uscito in fran­cese nel 2009, è ancora una volta un pic­colo paese della Cor­sica, diviso tra un pas­sato di faide roman­ze­sche nutrite di senso dell’onore e un pre­sente di mal­sop­por­tata schia­vitù turi­stica; ma, soprat­tutto, abi­tato dai desi­deri di eva­sione di un ragazzo che deve sal­varsi da quel deserto.

La noia del tempo vuoto, l’isolamento dal pre­sente e dalla sto­ria, l’inutilità di una vita in case che sono «come tombe», le gior­nate tra­scorse a cac­cia di merli con l’amico Jean-Do lo spin­gono ad arruo­larsi prima come volon­ta­rio a Gibuti e poi come mer­ce­na­rio in Iraq, cre­dendo che la rinun­cia a se stesso potrà schiu­der­gli un accesso verso il mondo. Nel suo slan­cio, con­vince anche il sar­ca­stico Jean-Do a seguirlo, e poi gli sarà dif­fi­cile affron­tare il senso di colpa quando l’amico viene dila­niato da un’autobomba.

Ripre­ci­pi­tato nel limbo atem­po­rale del pae­sino dove è nato, il ragazzo si isola sem­pre più e comin­cia a ripen­sare a Magali, il primo amore dei suoi quat­tor­dici anni che con­ti­nua a splen­dere come una dea pagana nel buio del pas­sato. Non si sono più visti da allora. Adesso anche lei vive bloc­cata in una dimen­sione inau­ten­tica, in cui l’infelicità si maschera con i tratti di una alle­gria for­zata. È con­su­lente e «taglia­trice di teste» per una grande società sul con­ti­nente, ma la salute, la gio­ventù, le uscite in disco­teca con i col­le­ghi e un’invidiabile busta paga non la sot­trag­gono alla sua soli­tu­dine essen­ziale: «È inca­pace di essere con­tenta. È inca­pace di lamentarsi».

Fer­rari, buon discen­dente di Camus, declina così ancora una volta i temi cen­trali intorno a cui ruota tutta la sua espe­rienza nar­ra­tiva. Gli uomini per vivere hanno biso­gno di qual­cosa più grande di loro, fosse anche una fuga che li renda testi­moni dei vivi e dei morti: «il riflesso che hai visto nello spec­chio non era solo il tuo, ma quello di cen­ti­naia di ragazzi che fug­gi­vano dalla tua stessa terra, morti da così tanto tempo che di loro non rima­neva niente se non il monu­mento pal­lido della tua pelle». Pos­si­bi­lità di libe­ra­zione che però è anche una minac­cia. La vio­lenza è al cuore della realtà. Quando in Iraq un bam­bino accetta un chewing-gum dai due mili­tari della guar­ni­gione, arriva il padre infu­riato e gli spezza entrambe le gambe. Oppure ecco il sedi­cente pro­feta el-Hallaj che viene cro­ci­fisso, brac­cia e gambe tagliati.

C’è un desi­de­rio di dis­so­lu­zione fra le ener­gie fon­danti di que­sto libro: i corpi si disfano nell’aria in par­ti­celle infi­ni­te­si­mali, in reli­quie, pol­veri; morire nella luce è l’approdo finale per il mar­tire che ha cono­sciuto l’amore indi­ci­bile di Dio così come per il ragazzo inquieto di ritorno dall’Iraq. «Ogni uomo è un abisso e giace nel pro­fondo di sé, dove i suoi sogni di coe­renza e unità sono stati inghiot­titi con lui». Così quella del pro­ta­go­ni­sta e quella di Magali sono due soli­tu­dini fatal­mente anco­rate al pas­sato, nutrite da quella forza cieca che nasce dalla sof­fe­renza ma allo stesso tempo le si oppone, si spinge lon­ta­nis­simo da lei.

La verità intol­le­ra­bile che il ragazzo sco­pre è una dua­lità inscin­di­bile vita-morte: «l’amore di Dio pre­siede al ripro­dursi e al mas­sa­crarsi, all’accoppiarsi e all’abbandonarsi, sen­tivi che l’agonia degli uccelli e la tua soli­tu­dine omi­cida nascon­de­vano un mistero potente quanto quello che ti faceva chi­nare la testa all’elevazione del calice».
Se c’è una spe­ciale prov­vi­denza anche nella caduta di un pas­sero dal suo ramo, la mente rischia di pre­ci­pi­tare nel para­dosso di un Dio vio­lento che spia il mondo attra­verso gli occhi innu­me­re­voli degli insetti, «è all’erta nelle pul­sa­zioni oscure delle cri­sa­lidi, nel ven­tre umido delle bestie, in cui attende di nutrirsi di nuovo della pro­pria crea­zione che così si mol­ti­plica e si rin­nova all’infinito». E allora diviene chiaro che la meta­fi­sica, lungi dall’essere stata esclusa dall’orizzonte, con­duce una vita clan­de­stina nella let­te­ra­tura e nella poe­sia e rie­merge anche in quel ser­mone della col­lera dal tono soste­nuto e ulti­ma­tivo che è Un dio un animale.

Invece la verità finale di Magali, dopo il nuovo incon­tro con il suo primo amore, sarà nel segno di un ten­ta­tivo di con­ci­lia­zione, con­scia del fatto che la realtà è ciò che oppone resi­stenza ai nostri sforzi di supe­rarne i limiti. «Per quanto dura­mente si giu­di­chi il mondo, ne siamo sem­pre e solo una parte e biso­gna accet­tarlo, per­ché all’infuori del mondo non c’è niente, nes­sun riposo, nes­suna bontà, nes­suna scap­pa­toia».
Il pro­ta­go­ni­sta senza nome del romanzo di Fer­rari intende scam­pare a un deserto e get­tarsi nel futuro, ma di deserto ne trova un altro dove il sof­fio di un Dio imper­scru­ta­bile lo spezza. Per­ché il deserto lo porta den­tro di sé e «non ci sono col­pe­voli né inno­centi». Se non si può fug­gire dal mondo, con­verrà guar­darne in fac­cia il male senza sen­tire freddo agli occhi, ma ten­tando di spez­zare la catena di un destino che ci vuole monadi sof­fe­renti sepa­rate dagli altri. Già Ari­sto­tele aveva scritto che solo un dio o un ani­male può essere vera­mente solo.