Narrativa. «Un dio un animale», il nuovo romanzo uscito per e/o dello scrittore corso Jérôme Ferrari, tra infanzia, amori perduti e una guerra insensata
In una delle scene recuperate di Apocalypse Now Redux, Martin Sheen, nel suo viaggio iniziatico lungo il fiume Lung, arriva a una villa fatiscente sepolta fra le nebbie che ospita un gruppo di francesi. È una cellula di vecchia Europa sottratta al tempo e allo spazio nel bel mezzo dell’Indocina. Aurore Clément, fumando languida una pipa d’oppio, gli parla del marito morto e delle pene immedicabili che porta nel cuore; poi gli rivela la propria incertezza: non sa più se sia un animale o un dio. Infine, sgranando gli occhi, gli dirà: «ma tu sei tutti e due, capitano, sei tutti e due».
Con Un dio un animale (traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca, pp. 120, euro 13) la casa editrice e/o prosegue con entusiasmo la pubblicazione dell’opera narrativa dello scrittore corso Jérôme Ferrari, Prix Goncourt nel 2012 per Il sermone sulla caduta di Roma. Il focus geografico e ideale del romanzo, uscito in francese nel 2009, è ancora una volta un piccolo paese della Corsica, diviso tra un passato di faide romanzesche nutrite di senso dell’onore e un presente di malsopportata schiavitù turistica; ma, soprattutto, abitato dai desideri di evasione di un ragazzo che deve salvarsi da quel deserto.
La noia del tempo vuoto, l’isolamento dal presente e dalla storia, l’inutilità di una vita in case che sono «come tombe», le giornate trascorse a caccia di merli con l’amico Jean-Do lo spingono ad arruolarsi prima come volontario a Gibuti e poi come mercenario in Iraq, credendo che la rinuncia a se stesso potrà schiudergli un accesso verso il mondo. Nel suo slancio, convince anche il sarcastico Jean-Do a seguirlo, e poi gli sarà difficile affrontare il senso di colpa quando l’amico viene dilaniato da un’autobomba.
Riprecipitato nel limbo atemporale del paesino dove è nato, il ragazzo si isola sempre più e comincia a ripensare a Magali, il primo amore dei suoi quattordici anni che continua a splendere come una dea pagana nel buio del passato. Non si sono più visti da allora. Adesso anche lei vive bloccata in una dimensione inautentica, in cui l’infelicità si maschera con i tratti di una allegria forzata. È consulente e «tagliatrice di teste» per una grande società sul continente, ma la salute, la gioventù, le uscite in discoteca con i colleghi e un’invidiabile busta paga non la sottraggono alla sua solitudine essenziale: «È incapace di essere contenta. È incapace di lamentarsi».
Ferrari, buon discendente di Camus, declina così ancora una volta i temi centrali intorno a cui ruota tutta la sua esperienza narrativa. Gli uomini per vivere hanno bisogno di qualcosa più grande di loro, fosse anche una fuga che li renda testimoni dei vivi e dei morti: «il riflesso che hai visto nello specchio non era solo il tuo, ma quello di centinaia di ragazzi che fuggivano dalla tua stessa terra, morti da così tanto tempo che di loro non rimaneva niente se non il monumento pallido della tua pelle». Possibilità di liberazione che però è anche una minaccia. La violenza è al cuore della realtà. Quando in Iraq un bambino accetta un chewing-gum dai due militari della guarnigione, arriva il padre infuriato e gli spezza entrambe le gambe. Oppure ecco il sedicente profeta el-Hallaj che viene crocifisso, braccia e gambe tagliati.
C’è un desiderio di dissoluzione fra le energie fondanti di questo libro: i corpi si disfano nell’aria in particelle infinitesimali, in reliquie, polveri; morire nella luce è l’approdo finale per il martire che ha conosciuto l’amore indicibile di Dio così come per il ragazzo inquieto di ritorno dall’Iraq. «Ogni uomo è un abisso e giace nel profondo di sé, dove i suoi sogni di coerenza e unità sono stati inghiottiti con lui». Così quella del protagonista e quella di Magali sono due solitudini fatalmente ancorate al passato, nutrite da quella forza cieca che nasce dalla sofferenza ma allo stesso tempo le si oppone, si spinge lontanissimo da lei.
La verità intollerabile che il ragazzo scopre è una dualità inscindibile vita-morte: «l’amore di Dio presiede al riprodursi e al massacrarsi, all’accoppiarsi e all’abbandonarsi, sentivi che l’agonia degli uccelli e la tua solitudine omicida nascondevano un mistero potente quanto quello che ti faceva chinare la testa all’elevazione del calice».
Se c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero dal suo ramo, la mente rischia di precipitare nel paradosso di un Dio violento che spia il mondo attraverso gli occhi innumerevoli degli insetti, «è all’erta nelle pulsazioni oscure delle crisalidi, nel ventre umido delle bestie, in cui attende di nutrirsi di nuovo della propria creazione che così si moltiplica e si rinnova all’infinito». E allora diviene chiaro che la metafisica, lungi dall’essere stata esclusa dall’orizzonte, conduce una vita clandestina nella letteratura e nella poesia e riemerge anche in quel sermone della collera dal tono sostenuto e ultimativo che è Un dio un animale.
Invece la verità finale di Magali, dopo il nuovo incontro con il suo primo amore, sarà nel segno di un tentativo di conciliazione, conscia del fatto che la realtà è ciò che oppone resistenza ai nostri sforzi di superarne i limiti. «Per quanto duramente si giudichi il mondo, ne siamo sempre e solo una parte e bisogna accettarlo, perché all’infuori del mondo non c’è niente, nessun riposo, nessuna bontà, nessuna scappatoia».
Il protagonista senza nome del romanzo di Ferrari intende scampare a un deserto e gettarsi nel futuro, ma di deserto ne trova un altro dove il soffio di un Dio imperscrutabile lo spezza. Perché il deserto lo porta dentro di sé e «non ci sono colpevoli né innocenti». Se non si può fuggire dal mondo, converrà guardarne in faccia il male senza sentire freddo agli occhi, ma tentando di spezzare la catena di un destino che ci vuole monadi sofferenti separate dagli altri. Già Aristotele aveva scritto che solo un dio o un animale può essere veramente solo.